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mercoledì 30 maggio 2012

Terremoto in Emilia: cosa sta succedendo?


Argomento di delicata e non facile trattazione. Pieno rispetto per le vittime, pieno rispetto e solidarietà per le loro famiglie e per i numerosi sfollati. E proprio perchè su un territorio considerato indenne da scosse sismiche sta avvenendo tutto questo, ho deciso di mostrarvi qualcosa. Logicamente è tutta una cosa che nasce dalla mia immaginazione.
Sono un folle dopotutto, un come si dice, "teorico del complotto". Ma la domanda di rito è sempre la stessa: sicuro che si tratta solo di teoria? Esiste una tecnica relativamente nuova, conosciuta con il nome di "Fraking", che consiste nel sondare il sottosuolo per far emergere gas e "oro nero", cosa molto cara ai nostri governi come ben sappiamo. In dettaglio la definizione di fraking è la seguente:

" lo sfruttamento della pressione di un fluido, in genere acqua, per creare e poi propagare una frattura in uno strato roccioso. La fratturazione, detta in inglese frack job, viene iniziata da una trivellazione eseguita in una formazione di rocce petrolifere, per aumentare l'estrazione e il tasso di recupero del petrolio e del gas naturale contenuti nel giacimento. Le fratture idrauliche possono essere sia naturali che create dall'uomo; esse vengono create e allargate dalla pressione del fluido contenuto nella frattura. Le fratture idrauliche naturali più comuni sono i dicchi e i filoni-strato, oltre alle fessurazioni causate dal ghiaccio nei climi freddi. Quelle create dall'uomo vengono indotte in profondità in ben precisi strati di roccia all'interno dei giacimenti di petrolio e gas, estese pompando fluido sotto pressione e poi mantenute aperte introducendo sabbia, ghiaia, granuli di ceramica come riempitivo permeabile; in questo modo le rocce non possono richiudersi quando la pressione dell'acqua viene meno."

Queste "fratture" vanno a influire su quello che è l'assetto geologico del territorio, fino a provocare eventi sismici. Ho letto in giro sui soliti siti che si definiscono "anti-fuffa", i padroni della verità, coloro che tutto sanno e che tutto hanno in mano, coloro che si bevono con l'imbuto tutte le cazzate che gli vengono propinate dalle fonti "ufficiali" e dal "governo", che questa tecnica non è mai stata attuata in Emilia. Questa è la testimonianza diretta di una persona che abita in quella zona, che vi propongo:

" io abito proprio a Finale Emilia e proprio qui dall'inizio dell'anno vanno avanti e indietro bulldozer di dimensioni mai visti prima se non in televisione.
Si dirigono in direzione di una cava ormai storica di trachite che era stata abbandonata per esaurimento minerario, questo vuol dire che in decenni di estrazione hanno preso tutto quello che era possibile prelevare e quindi adesso ci sono dei buchi enormi.
Bene, considerato questo, e considerato che trivellando si raggiungono profondità ancora maggiori, considerando ancora che quando questi bulldozer sono in attività si sentono dei rumori tipo raffiche di mitra che sono sicuramente da imputare alle esplosioni a massima pressione nel sottosuolo con il fracking, è da pazzi non ribellarsi a questo scempio ancora oggi in atto."

Ma no, sono solo fantasie! Ed è anche una fantasia questo documento, che vi consiglio di leggere, che confermerebbe invece che il fraking è stato attuato 



Stiamo perdendo inconsapevolmente il controllo, perchè ciò che spesso crediamo  "voluto dal caso" caso non è...Tutti vorremmo che la parata del 2 giugno non si tenesse in questa occasione, e i soldi della sua organizzazione devoluti per la povera gente in Emilia, ma ho la vaga impressione che non succederà. I parlamentari potrebbero per un paio di mesi almeno, dimezzare il loro stipendio così da dare una forte mano, ma non succederà nemmeno questo. Quello che è certo invece è che aumenterà il prezzo della benzina, visto che, almeno per ora, le trivellazioni dovranno fermarsi. Ma no, è solo una teoria, è tutta una coincidenza.


Articolo a cura di Eclissi del Mondo

lunedì 28 maggio 2012

INTERVISTA ESCLUSIVA AD ADAM KADMON

Il blog Mistero In Linea
vuole condividere con tutti i suoi lettori l'intervista esclusiva fatta dal produttore di mistero su Italia 1 con Adam Kadmon.
Importante e profondo quello che viene mensionato durante la chiacchierata affrontata dai due.
Non anticipo niente buon proseguimento con MISTERO IN LINEA.


sabato 26 maggio 2012

Enigma e Sumeri.


Quale binomio più giusto e coerente?
In effetti, fin dalla fine del XIX secolo, quando fu finalmente decifrata la scrittura cuneiforme dando vita alla nascita dell’assiriologia, si generò un ampio scontro tra due schieramenti, uno pro e l’altro contro l’attribuzione della paternità di questa nuova scrittura alla lingua sumera di origine semitica. Una diatriba che rese ancor più accidentato il percorso della ricerca delle origini di questo straordinario quanto incredibile popolo, che con questa invenzione decretò la fine della Preistoria e l’inizio della Storia.
Immigrati dalla Valle dell’Indo o originari dei territori montani del Caucaso?
Popolazione semita o non semita?
Quesiti relativi ai Sumeri ai quali il mondo accademico, da ben 150 anni, non è ancora stato capace di trovare risposte certe e quindi definitive. Ma le cose stanno proprio così?
Sta di fatto che, allo stato attuale della nostra conoscenza, benché sulla provenienza geografica di questa straordinaria civiltà ci sia chi sostiene pariteticamente l’una o l’altra delle due ipotesi appena indicate, per quanto riguarda l’appartenenza etnica sembrerebbero tutti d’accordo sull’origine non semitica. Sembrerebbero!
Si. Un condizionale prudente, ma soprattutto espressione di un pensiero frutto dell’essere consci che, alla chiusura di un conflitto, in questo caso archeologico-letterario, l’armistizio si concretizza sempre con uno o più compromessi sopportati, come è logico, dalla parte perdente. E la storia, come si sa, la scrivono i vincitori. Una storia che, quando va bene, costituisce una mezza verità, e l’altra mezza, ovviamente, si tende a farla deliberatamente cadere nell’oblio. Tant’è che da quel momento, circa 50 anni fa, sebbene ci siano stati dei timidi tentativi di ricerca, nel mondo accademico non si è più prodotto alcun progresso verso l’enigma delle origini della civiltà sumera. Stallo totale. Stano, non è vero?
Ma se fosse la solita tecnica oscurantistica attuata dal vincitore? Oppure si tratta di una normalissima coincidenza? Il dubbio rimane. A tal proposito Voltaire diceva: “Il dubbio è scomodo ma solo gli imbecilli non ne hanno”. Personalmente considero i dubbi la molla propulsiva del sapere, del conoscere e del ricercare. Quindi, mettiamoci all’opera in maniera severa ed ordinata.
Era la fine del XX secolo quando imperversava lo scontro tra i vari studiosi circa l’accettazione della definizione di una nuova scrittura derivante dalla lingua sumera di origine semitica. La divergenza tra i due schieramenti era tale che i contrari, la parte più consistente, giunsero perfino a negare l’esistenza del popolo sumero. Però, successivamente questa posizione negazionista dovette mutarsi in possibilista a fronte delle numerosissime prove anche archeologiche che sostenevano la tesi opposta. Ma questo cambio di atteggiamento fu l’unica apertura concessa. In breve, la nuova scrittura e la nuova lingua apparteneva al popolo Sumero, che come tale non era di origine semita.
Un compromesso raggiunto con la buona pace di tutti, che indubbiamente ha condizionato tutta la futura filologia dei stesti mesopotamici. Un compromesso che, rileggendo la storia di quel periodo, genera il grande sospetto che esso non fosse scevro da condizionamenti esterni ed estranei, in un certo qual modo, al mondo archeologico e letterario. Perché? Perché proprio in quell’epoca in Europa iniziavano a soffiare i primi venti antisemiti, e gli studiosi pan germanici non ne erano certo immuni. Una risposta, forse, che non è risolutiva del dubbio, ma che, come vedremo, rappresenta la Stella Polare nel nostro cammino alla ricerca delle origini del popolo Sumero.
Nella miriade di documenti da me esaminati ho avuto modo di leggerne uno straordinario.
Tanto per il suo contenuto quanto per l’autorevolezza del suo autore, tale è Samuel Noah Kramer, il più importante sumerologo del XX secolo. La pubblicazione di Kramer risale al 1963. Perché non è stata messa in luce? Perché non ha ricevuto la giusta risonanza che meritava?
Le conclusioni a cui Kramer giunse, dopo averci portato per mano in un percorso storico e razionale, sono rivoluzionarie; sicuramente scioccanti per l’elevato impatto che esse, se accolte, avrebbero avuto sugli studi biblici. Sarà per questi motivi che sia i sumerologi che gli studiosi del testo biblico, come contromisura, adottarono la strategia dell’in-differenza?
Come spesso accade nel mondo accademico, quando la presentazione di una teoria si discosta dall’ortodossia scientifica in maniera che oserei definire risolutiva, essa viene definita eretica!
Ma quando l’autore dello studio è del calibro del professor Kramer, tacciarlo di eresia avrebbe sollevato un grande e controproducente pol-verone alimentato, oltretutto, dalla sua conclamata serietà professionale.
Di conseguenza, ecco che i “generali accademici” dell’epoca, per contrastare la minaccia della conclusione a cui era giunto il sumerologo, optarono per una mossa alternativa al tradizionale e consueto discredito: il silenzio. Tutto chiaro!
Gli studi di Kramer partono dalla considerazione generata dal confronto tra il conosciuto della civiltà sumera e la tradizione israelita.
Secondo tali studi, seguendo la narrazione biblica, gli antenati dei patriarchi ebrei, lasciato l’Eden, si trasferirono ed infine si stabilirono nella “Terra di Shinar”, l’antica Sumer. Studi che avvalorano, in particolare, le relazioni tra i patriarchi biblici e i Sumeri:

I risultati raggiunti dai sumeri in fatto di civiltà, religione e letteratura hanno lasciato un’impronta profonda non solo sui popoli a loro vicini in termini di spazio e tempo, ma anche sulla cultura dell’uomo di oggi, soprattutto attraverso la loro influenza, sia pure indiretta, sugli antichi ebrei e sulla Bibbia. Quanto gli ebrei debbano ai sumeri appare evidente ogni giorno di più, a mano a mano che vengono ricomposti e tradotti i testi della letteratura sumera; che, a quanto ci è dato di vedere, ha non poche caratteristiche in comune con i libri della Bibbia.”1

Quello che ad una prima lettura potrebbe sembrare una teorica premessa, in verità oggi è un concetto ormai consolidato. Ad essere precisi, Kramer lo aveva già ampiamente dimostrato nella sua pubblicazione del 1956 dal titolo “From the sumerian tablets2 e tale opinione fu poi largamente accettata dal mondo accademico.
Come ogni buon progetto di indagine, anche questo parte da un dato di fatto, uno status quo fondamentale che genera inevitabilmente delle domande come:

Se i sumeri sono stati un popolo che nel Vicino Oriente antico ha raggiunto risultati tanto importanti in campo letterario e culturale da lasciare un’impronta indelebile sulle opere degli uomini di lettere ebrei, perché mai la Bibbia quasi non li nomina?”3

Nell’Antico Testamento vengono citate quasi tutte le civiltà importanti del Vicino Oriente antico come Egizi, Cananei, Amorrei, Urriti, Ittiti, Assiri, Babilonesi, ed altri. Ma i Sumeri non vengono indicati. Perché?
Come già detto precedentemente, il professor Kramer era persona di provata onestà e capacità, e queste qualità emergono anche in questa occasione; lo dimostra il fatto che con la pubblicazione di questo lavoro non intendesse solo servire la causa dell’assiriologia, ma anche riproporre una analoga indagine pubblicata la prima volta nel 1941. Indagine il cui autore era nientemeno che il suo maestro Arno Poebel (1881-1958), altro grande ricercatore del pianeta Mesopotamia.
Il motivo di questa riesposizione? Trasparentissimo. Ecco come lo giustifica:

Vale la pena di ricordare che a questo interessante enigma il mio maestro e collega, Arno Poebel, ha proposto una soluzione in un articolo pubblicato dall’«American Jounal of Semitic Languages» (vol. 58, 1941, pp. 20-26). L’ipotesi di Poebel non ha trovato alcuna eco tra gli orientalisti e sembra che sia caduta nel dimenticatoio. È mia opinione, tuttavia, che reggerà la prova del tempo e che prima o poi avrà il riconoscimento che le spetta, in quanto contributo significativo alla determinazione delle correlazioni tra ebrei e sumeri.”4

Ogni commento è superfluo. Questo paragrafo trasuda sconforto, dolore, sbigottimento, ma, nello stesso tempo, speranza e fiducia per un futuro che saprà riconoscere meriti ed onori trascurati.
Le mie sensazioni erano giuste, tanto quanto i dubbi da esse generate: gli orientalisti – come li definisce Kramer – hanno disprezzato con la noncuranza. Assodato questo, rimane da capire perché.
Con la pubblicazione del risultato di questa straordinaria analisi, lo scopo di Kramer fu di dare la soluzione all’enigmatica assenza dei Sumeri dal racconto biblico.
Per fare ciò, l’autore prese in esame in maniera rigorosa la grammatica della scrittura sumera. Vediamo come.
Nell’uso delle consonanti, quando queste si trovavano al termine di una parola, i Sumeri omettevano di pronunciarle. Nel caso specifico in cui la parola fosse dingir, essa veniva pronunciata “dingi”, per quanto la consonante “r” fosse scritta. Proseguiamo:“Torniamo dunque al nostro problema e alla ricerca della parola «Sumer», o meglio «Shumer», per usare la forma che compare nei documenti in caratteri cuneiformi. Poebel fu colpito dalla somiglianza tra «Shumer» e «Shem», il nome del figlio maggiore di Noè, da cui derivano gli eponimi come Ashur, Elam, e soprattutto, Eber, l’eponimo degli ebrei.”5
Il passo della Bibbia, a cui si fa riferimento, è in Genesi 10, 21-22 ed è il seguente: 21Unto Shem, the father of all the children of Eber […]. 22 The children of Shem; Elam, and Asshur, and Arphaxad, and Lud and Aram”.6
Ora, considerato che, come ormai generalmente accettato dall’intera comunità degli storici, per figli di Eber si intende il popolo ebreo, non potrebbe ugualmente dirsi che il nome Shem rappresenti l’eponimo del termine Shumer, ovvero la terra di Sumer? Per Kramer non c’è alcun dubbio: la risposta è affermativa e ce lo dimostra precisando che: la vocale ebraica “e” equivale spesso alla vocale cuneiforme “u” (v. lo shum accadico e lo shem ebraico entrambi significanti “nome”); come indicato nelle righe precedenti in merito all’uso delle consonanti finali, la parola shumer veniva pronunciata shumi o, più frequentemente, shum (la vocale “i” è molto corta), così come nella lingua ebraica la parola sarebbe stata pronunciata shem.
Ecco la conclusione di Kramer: “Se l’ipotesi di Poebel risulta corretta, e Shem corrisponde a Shumer/Sumer, dobbiamo concludere che gli autori ebrei della Bibbia, o quanto meno alcuni di loro, considerarono che i sumeri fossero gli antenati del popolo ebraico.7
È all’interno di questo periodo che c’è la causa rivoluzionaria che avrebbe generato l’umiliante indifferenza dei sumerologi: «[]che i sumeri fossero gli antenati del popolo ebraico». Ma questa, al momento, costituisce solo un sospetto che, sebbene forte, non è certezza. La nostra indagine quindi non è terminata, ma forse siamo sulla strada giusta che ci porta alla soluzione che, come vedremo tra poco, è ormai ad un passo da noi.
Riflettiamo. Abbiamo detto “umiliante indifferenza dei sumerologi”. Se questo atteggiamento fosse verità e non sospetto, in quale miglior contesto coerente troverebbe allocazione se non in quel conflitto archeologico-letterario indicato come “questione sumerica”?
In sintesi in quel contesto, nel 1857, fu finalmente decifrata la scrittura cuneiforme e decretata la nascita dell’assiriologia; l’eccezionalità dell’avvenimento avrebbe cambiato, da quel momento, la conoscenza storica di tutta l’antica area mediorientale e, quel che più contava, della conoscenza delle origini della civiltà umana. Come già detto in precedenza, in quel tempo, in Europa iniziavano a soffiare i primi venti antisemiti; con il passare del tempo, tra i ricercatori prese sempre più terreno la persuasione che la lingua di una parte dei testi babilonesi e assiri non fosse semita. Quei ricercatori, avversi alla nuova teoria di Kramer che dava alla scrittura sumerica ed al popolo che la espresse un’origine semita, giunsero perfino a negare l’esistenza della lingua sumerica, se non addirittura a negare l’esistenza del popolo sumero stesso. Una posizione, questa, che non fu totalmente vincente, ma che per il mondo accademico degli orientalisti diventò un fatto deciso, accettato e definitivo: la scrittura, il suo linguaggio ed i loro padri Sumeri non erano semitici.
Ci siamo. Il cerchio sta per chiudersi. Siamo finalmente giunti al compromesso di fine conflitto: per i Sumeri andava bene la gloria, il merito, la gratitudine per aver inventato la scrittura ancor prima degli egiziani, nonché l’ammirazione per il suo straordinario sapere. Ma questo popolo non poteva e soprattutto “non doveva assolutamente essere semita”.
Per contro, due assiriologi di fama mondiale e competenza universalmente riconosciuta, Arno Poebel nel 1941, Samuel Noah Kramer nel 1963, con coraggio, coerenza e indiscussa capacità professionale, pubblicarono la loro straordinaria scoperta circa l’origine degli inventori della scrittura adducendo, prove storiche e filologiche alla mano, che i Sumeri:

  • sarebbero i discendenti del biblico Shem figlio di Noè, superstite del diluvio;
  • si insediarono nella Mesopotamia meridionale in quel territorio che, per la loro presenza, prese il nome di “Terra di Shumer” (la biblica Shinar);
  • contrariamente al pensiero convenzionale di quel momento, erano evidentemente un popolo semita.

Rivelazioni sconcertanti? No assolutamente, tutt’altro.
Esse segnano il progresso della conoscenza, lo scioglimento dei dubbi, la soluzione di un enigma. Eppure, al tempo furono “private dell’ossigeno della pubblicità.”8
Era il 1941. L’Europa era in piena seconda guerra mondiale e l’anti-semitismo era alla sua massima espressione. Un antisemitismo che, nonostante l’origine del termine, non si riferisce all’odio rivolto a tutte le popolazioni semitiche bensì all’odio ed alla discriminazione unicamente verso gli Ebrei. E “Shem” era il padre di tutti gli Ebrei.
Lascio a voi le considerazioni finali che sì, in questo caso, sono davvero sconcertanti.



Proprietà letteraria riservata.
Fonte: Schiavi degli Dei – l’alba del genere umano.
© 2009 Biagio Russo
© 2010 Drakon edizioni

mercoledì 23 maggio 2012

Mistero a Città di Castello fenomeni inspiegabili in Pinacoteca Comunale

“Misteri in pinacoteca”. Con questo titolo la Società cooperativa sociale “Il Poliedro”, ente gestore dell’area museale della Pinacoteca comunale di Città di Castello, ha promosso un incontro, a palazzo Vitelli alla Cannoniera. Al centro dell’appuntamento, a cui hanno preso parte anche Alessandra Garavani, presidente de “Il Poliedro”, e Michele Bettarelli, assessore alla cultura del Comune di Città di Castello, ci sono stati i risultati della ricerca svolta dall’esperto biometrico e indagatore dell’ignoto, Daniele Gullà, coadiuvato da Florentina Richeldi, Mattia Mascagni e Luciano Pederzoli, e volta a esplorare alcuni fenomeni inspiegabili da sempre legati alla storia della residenza tifernate.
“Tutto è iniziato dalla suggestione di un’operatrice del museo – ha spiegato Garavani – che, a fronte delle leggende legate alla residenza, ha voluto sottoporre il palazzo a un approfondito esame. Anche questa – ha aggiunto - è un’occasione per ‘vivere il museo’, quello a cui puntiamo da ormai 15 anni”. “Siamo stati chiamati da ‘Il Poliedro’ – ha spiegato Gullà - per fare dei test sulla struttura. Prima di arrivare qui, a Città di Castello, abbiamo sottoposto le mappe del palazzo a Florentina Richeldi, esperta nelle tecniche di percezione psichica, che, attraverso una seduta di ‘visione a distanza’, ha fornito dei punti interessanti, all’interno di questa struttura, su cui ci siamo poi concentrati”. Dopo questa fase preliminare, lo staff di Daniele Gullà, giunto a Città di Castello, ha compiuto una doppia rilevazione, audio e video.
 “Abbiamo chiesto la possibilità di esplorare, senza condizionamenti, il locale – ha continuato Gullà –, effettuato un monitoraggio a frequenze non visibili e registrato frequenze non udibili all’orecchio umano. Abbiamo fatto chiudere la pinacoteca per 6 ore, nelle quali abbiamo lasciato dei microfoni molto sensibili all’interno, accertandoci che nessuno, come anche dimostrato dalle telecamere di sicurezza, potesse introdursi nel palazzo”. L’esame ha prodotto suggestivi risultati, accolti da numerosi interessati del paranormale, intervenuti all’incontro con gli esperti. “Dopo il rilievo – ha raccontato Gullà -, svolto il nastro registrato, ci siamo accorti che, a circa 3 ore dal momento in cui avevamo lasciato il palazzo, erano stati rilevati dei suoni. Alcuni dei quali, certo, possono essere provenuti dall’esterno, ma, un paio, e in particolare uno, certamente accaduti all’interno della struttura, per intensità sonora e per riverbero ambientale. Abbiamo cercato di capire la natura del suono, che ha presentato caratteristiche fisiologiche umane, comparandolo ad altri campioni audio, e ottenuto che la traccia sonora a cui più si avvicina è quella che simula la reazione vocale umana a una pugnalata”. “Altra cosa emersa – ha, poi, proseguito Gullà - sono delle immagini, catturate in banda ultravioletta e infrarossa, che hanno mostrato degli addensamenti, non spiegabili scientificamente, che, in una sequenza di tre scatti, hanno fatto rilevare una forma antropomorfa, molto simile a una figura femminile”. A questi risultati, come spiegato anche nel corso dell’incontro di giovedì sera, si aggiunge poi il rilevamento di alcuni oggetti metallici sepolti dentro il palazzo, localizzati tramite georadar. Tutti gli elementi emersi dall’esame, poi, hanno richiamato la leggenda tifernate che, da sempre, lega a palazzo Vitelli alla Cannoniera le figure di Alessandro Vitelli, la moglie Angela de’ Rossi di San Secondo e Laura, nota come “Sora Laura”. Un personaggio, questo, privo di riferimenti storici, ma di cui, nei secoli, si è tramandato, verbalmente, la consuetudine di attrarre a palazzo, attraverso il lancio di un fazzoletto per strada, uomini poi scomparsi. “La leggenda esiste – ha concluso Gullà -  e adesso anche dei dati, che abbiamo raccolto senza interpretarli, perché non spetta a noi. Quanto rilevato è di sicuro interessante, ma la ricerca andrebbe approfondita per cercare continuità nei fenomeni registrati e un eventuale collegamento alla leggenda di questa residenza”.

martedì 22 maggio 2012

Il terremoto era stato previsto, ora se ne aspetta uno catastrofico al sud


Ogni terremoto sembra trovarci impreparati: impreparata la popolazione che non sa come reagire, non sa capire i segni, se ce ne sono, della natura. Impreparata la politica che ogni volta si trova a contare i morti e a ricostruire ciò che avrebbe potuto rendere più sicuro, rinforzare, rendere anti sismico. Ogni volta a stupirci e a non capire che l’Italia è TUTTA sismica. Saperlo non dovrebbe servire, come invece è, ad aumentare paura, ma dovrebbe spingere chi di competenza, le Istituzioni, a darsi da fare. Come?
In primis adeguando le strutture, e poi educando la popolazione: cosa fare durante un sisma, cosa tenere a fianco a letto SEMPRE, come valutare la condizione della propria abitazione.
Sapere lo si sa, ma si fa davvero poco.
Il problema è che il rischio dalla scienza attuale, viene considerato come una probabilità lontana, perché la scienza sa dirci poco o nulla sulla previsione.
Nei giorni scorsi su tutti i mezzi di stampa, è uscita la notizia di uno studio, italiano, che invece avrebbe “previsto” il sisma in Emilia, o meglio, avrebbe annunciato il rischio in un dato periodo.
Lo studio realizzato da Giuliano Panza, ordinario di sismologia dell’Università di Trieste e dai colleghi del Centro di fisica teorica Miramare, evidenzia due algoritmi: CN ed M8. Lo studio presenta una mappa e dentro una zona nella quale, secondo gli studi, si può prevedere, a medio termine, uno terremoto di magnitudo significativa.
Lo studio va avanti da sei anni e il 4 maggio il professor Panza ha consegnato il suo materiale alla Commissione Grandi Rischi, alla presenza di Antonella Peresan dell’Università di Trieste e del Direttore del centro ricerche Enea di Bologna, Alessandro Martelli.
Il documento, ora nelle mani della Commissione Grandi Rischi, evidenziava il rischio nella zona emiliana, un rischio a medio termine entro settembre.
I due algoritmi CN ed M8 utlizzano informazioni contenute nel catalogo dei terremoti e individuano nell’attività sismica moderata variazioni che possono essere considerate precursori di un forte sisma. Calcolano gli intervalli temporali in cui risultata aumentata, rispetto a condizioni normali, la probabilità in cui si verifichi un sisma superiore.
Lo studio del dottore Panza è italiano ma parte da studi internazionali, infatti l’algoritmo CN si chiama così perché nasce da studi fatti in California e Nevada, e l’M8 è stato messo messo a lavoro per terremoto di magnitudo superiore a 8.
I risultati degli studi sono di grande interesse scientifico, anche e soprattutto perché la loro attendibilità è superiore al 95% (algoritmo CN) e al 99% (algoritmo M8) secondo Panza, che già tre anni presentò alcuni risultati in una prolusione all’inaugurazione dell’anno accademico a Trieste.
Al Tg3 Leonardo Alessandro Martelli sismologo Enea Bologna spiega: “I terremoti si possono prevedere, ma sempre con incertezza. Questi studi non definiscono luogo e ora precisa di un sisma, ma una previsione da qualche mese ad un anno in una determinata zona e possono offrire uno scenario su cui incidere. Questi studi per ora non sono in grado di permettere l’evacuazione ma sono importanti per verificare la sicurezza delle strutture, per organizzare la protezione civile e migliorare l’informazione alla popolazione.”
Dati di grande interesse c’erano prima del sisma a L’Aquila e prima di quello in Emilia.
Perché non è stato fatto nulla né a L’Aquila né in Emilia? “Martelli spiega: “Questa metodologia anche se in sviluppo avanzato non è ben accetta nel mondo ufficiale dei sismologi.”

EPILOGO
Alessandro Martelli, direttore del Centro Enea di Bologna, in un’intervista pubblicata su Affari Italiani, rivela come il terremoto dell’Emilia fosse ampiamente prevedibile e lancia l’allarme per un imminente scossa violenta nel Sud d’Italia. Dalle sue parole si evince come la Commissione Grandi Rischi fosse stata informata del pericolo di scossa in Emilia già il 4 Maggio.
Direttore, era prevedibile il terremoto in Emilia? Ci sono state analisi precedenti?

Si, era stato previsto. Ci sono dei “cosiddetti” strumenti di previsione che sono fatti in diversi Paesi, in Italia li fa l’International Centre for Theoretical Physics (ICTP) e l’Università di Trieste. In base al verificarsi di possibili anomalie nelle tre zone italiane, nord, centro e sud vengono emessi degli allarmi. E’ un po’ come misurare la temperatura corporea e vedere se hai la febbre.

E sono stati emessi allarmi?

Si, in marzo è stato diramato un allarme per la zona nord perché era stato stimato un movimento del terreno di magnitudo maggiore del 5,4. C’erano notevoli probabilità che a nord sarebbe arrivato un terremoto. La regione allarmata era questa anche perché c’erano stati terremoti vicini, nel Garda, nel veronese, poi a Parma. L’algoritmo dell’analisi mostrava che era fortemente probabile.

E come mai nessuno lo sapeva?

Si tratta di metodologie sperimentali. Gli allarmi non vengono divulgati ma comunicati a un gruppo di esperti nazionali. Nella Commissione Grandi Rischi si sapeva, ne abbiamo proprio parlato il 4 maggio.

E cosa è stato fatto in proposito per preparare all’evento?

Se ne discusse anche perché questo tipo di analisi non sono accettate da tutti i sismologi. Io posso solo dire che la Commissione Nazionale Grandi Rischi era informata dai primi di marzo.

Sono previste altre scosse in Emilia?

Non si può dire. Ha ragione Gabrielli (Capo del Dipartimento della Protezione Civile, ndr) che bisogna attendere e stare attenti. Ci potrebbero essere solo scosse di assestamento come scosse più forti. Non occorre arrivare a conclusioni senza avere tutti gli elementi.

Ma cosa bisognerebbe fare in questi casi?

Non si possono immediatamente evacuare delle zone per mesi ma di sicuro si può verificare le strutture strategiche, e organizzare la protezione civile, informare la popolazione su come si deve comportare.

Ma che sia andata come è andata… non l’allarma?

Certo!
PREVISIONE
Più del nord adesso però mi preoccupa il sud. Per il nord c’erano stati due studi. Uno allarmava per un eventuale terremoto e l’altro no. Ed è arrivato il terremoto in Emilia. C’è un allarme per il sud più grave in arrivo perché lì sono stati applicati tre modelli di studio. Tutti e tre danno l’allarme rosso. Quindi questo preoccupa oltretutto perché prefigura un eventuali terremoto molto violento.

Ma lei non aveva denunciato tempo fa che in Italia, al sud, esistono stabilimenti industriali potenzialmente soggetti a rischio di incidente rilevante in caso di terremoti?

Si, hanno sostanze potenzialmente pericolose in elevate quantità. Sono impianti chimici, ci sono stabilimenti che contengono serbatoi di gas naturale liquefatto (Liquefied Natural Gas o LNG), altri serbatoi di stoccaggio di grandi dimensioni, rigassificatori…

Ma quel’è il problema tecnico di questi impianti?

Il problema è che le scelte progettuali degli impianti sono state lasciate ai gestori e, generalmente, non è noto, per i diversi stabilimenti, se e quali criteri antisismici siano stati adottati. Poi c’è il rischio da maremoto, evento raro, ma non impossibile (vedi l’incidente di Fukushima, ndr) e che, quando si verifica, è devastante: questo rischio appare del tutto trascurato negli impianti chimici italiani situati in prossimità delle coste, e in aree sismiche come ad esempio a Milazzo o se penso ai serbatoi sferici situati a Priolo-Gargallo, sono alquanto pessimista e preoccupato. Manca In Italia una specifica normativa per la progettazione antisismica degli impianti chimici.

la fonte: http://www.express-news.it

mercoledì 16 maggio 2012

Il Vangelo secondo Giuda "Fu Gesù a dirgli di tradire"

"QUI si narra il segreto della rivelazione che Gesù fece parlando con Giuda Iscariota...". Così inizia la prima pagina di un fragile manoscritto in papiro che rilegge in modo radicalmente diverso la vicenda del "traditore" più odiato della storia e lo trasforma nel più fedele discepolo di Cristo; un documento straordinario che oltre a fornire inedite informazioni su Giuda Iscariota lo riabilita presentandolo come colui che consegna Gesù alle autorità su richiesta dello stesso Cristo: il Vangelo di Giuda.

Al termine di un lunghissimo lavoro (cinque anni) una équipe di esperti linguisti, papirologi e studiosi di storia della religione, una vera e propria squadra di "detective biblici" è riuscita a decifrare il testo e a verificarne l'autenticità e il significato religioso. Il risultato, uno dei più eccezionali documenti dell'archeologia giudaico-cristiana, è stato svelato ieri a Washington nella sede della National Geographic Society. In Italia sarà pubblicato in esclusiva dal "National Geographic Italia" di maggio (in edicola dal 21 aprile) e con la rivista si potrà anche acquistare il libro "Il Vangelo perduto di Giuda Iscariota".

Scritto su papiro e legato da un laccio di pelle il codice è stato redatto in copto - la lingua in uso allora in Egitto - intorno al 300 dopo Cristo; ritrovato negli anni Settanta (del '900) nel deserto presso El Minya, in Egitto finì nelle mani di mercanti di antichità, lasciò l'Egitto per giungere prima in Europa e poi negli Stati Uniti dove rimase in una cassetta di sicurezza a Long Island, New York, per 16 anni prima di venire acquistato dall'antiquaria di Zurigo Frieda Nussberger-Tchacos nel 2000.

Un testo destinato a fare discutere storici, religiosi e filosofi, un testo che fa giustizia anche dell'odioso e brutale antisemitismo che per secoli si è nutrito della vicenda-leggenda di "Giuda il Traditore". Già nel titolo ("Il racconto segreto della rivelazione fatta da Gesù a Giuda Iscariota nel corso di una settimana, tre giorni prima la celebrazione della Pasqua") riecheggiano temi cari alla tradizione gnostica e che ebbero una grande diffusione agli albori del cristianesimo; vicende che contraddicono la storia più tradizionale, quella che ci verrà tramandata dai Vangeli ufficiali (di Luca, Marco, Matteo e Giovanni) e che verrà codificata dai dogmi della Chiesa cattolica nei secoli successivi.

Nel documento - in cui non si fa alcun cenno alla crocifissione nè alla resurrezione - fin dalla prima scena Gesù ride dei suoi discepoli che pregano il loro Dio, il "dio minore" del Vecchio Testamento che ha creato il mondo. Li esorta a guardarlo e a comprendere cosa egli sia davvero, ma questi non lo fanno e non capiscono. Il passaggio fondamentale arriva quando Gesù dice a Giuda: "... tu supererai tutti loro. Perché tu farai sì che venga sacrificato l'uomo entro cui io sono". Aiutando Gesù a liberarsi del suo corpo terreno, Giuda lo aiuterà a liberare la sua entità spirituale, la sua essenza divina.

Uno status, quello di Giuda, che viene più volte descritto come speciale: "Allontanati dagli altri, a te rivelerò i misteri del Regno. Un Regno che raggiungerai, ma con molta sofferenza. Ti ho detto tutto. Apri gli occhi, guarda la nube e la luce che da essa emana e le stelle che la circondano. La stella che indica la via è la tua stella". E Giuda "aprì gli occhi, vide la nube luminosa e vi entrò".

Giuda Iscariota non solo non è "il Traditore" ma è - stando al codice copto - il mezzo attraverso cui Gesù di Nazareth raggiunge il suo scopo, dunque il discepolo decisivo, il più importante. Nel testo si prevede l'ira degli altri discepoli contro il traditore (Giuda ha una visione, "vidi me stesso mentre i 12 discepoli mi prendevano a sassate e mi perseguitavano") ma anche il fatto che sarà comunque superiore a loro: "Sarai maledetto per generazioni, ma regnerai su di loro", gli dice Gesù.

Al papiro manca la parte finale e il testo si interrompe all'improvviso: "Essi (coloro che erano venuti ad arrestarlo) avvicinarono Giuda e gli dissero, "Cosa fai qui? Sei un discepolo di Gesù?". Giuda diede loro la risposta che volevano, ricevette da loro del denaro e glielo consegnò".

Le 66 pagine del manoscritto non contengono solo il Vangelo di Giuda ma anche un testo intitolato "Giacomo" (noto anche come la Prima Apocalisse di Giacomo), una lettera di Pietro a Filippo e un frammento di un quarto testo che gli studiosi hanno deciso di chiamare provvisoriamente Allogeni (Book of Allogenes).

martedì 15 maggio 2012

Aperta la tomba di De Pedis. ci sono altre ossa: "Resti umani del '700"



(AGI) - Roma, 15 mag. - Gli agenti della Scientifica dovranno analizzare anche le ossa rinvenute nella cripta dove e' custodita la bara del Enrico De Pedis, il boss della banda della Magliana, detto Renatino. Si tratta di almeno un centinaio di contenitori con ossa trovate nella tomba dove era riposto anche il sarcofago del boss. Il cadavere di Renatino e' stato identificato anche attraverso i rilievi dattiloscopici. La tomba e' stata aperta questa mattina nella Basilica di Santa Apollinare, a Roma, nell'ambito dell'inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi.

Il sospetto sulla sepoltura gia' anticipato in un romanzo

Il cadavere seppellito nella cripta nella Basilica di Santa Apollinnare, e' proprio quello del Boss della banda della Magliana, ucciso a Roma nel 1990. Gli agenti della Scientifica e della Squadra Mobile di Roma hanno avuto incarico dalla Procura di ispezionare anche l'ossario che si trova nei sotterranei della Basilica.

La Radio Vaticana ha ridimensionato in serata la notizia riguardante resti umani non appartenenti a De Pedis trovati nella cripta di Sant'Apollinare: "nella cripta che ospita la bara di De Pedis, "sono state trovate - ha precisato Radio Vaticana - altre 200 cassette contenenti reperti ossei estranei al boss, ma probabilmente risalenti ad un ossario del '700".

FRATELLO EMANUELA, MIO ATTO D'AMORE PER MIA SORELLA

"La mia non e' stata una battaglia ma un atto d'amore per mia sorella Emanuela. Ha subito una ingiustizia perche' non le hanno permesso di vivere la sua vita". Cosi' Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, la ragazzina scomparsa nel 1983, al termine delle operazioni di apertura della tomba del boss della Banda della Magliana.

"Io ho sempre detto - ha dichiarato ai giornalisti Pietro Orlandi che non pensavo ci fosse qualcosa legato a Emanuela all'interno della tomba. Se la Banda della Magliana c'entra e' perche' ha avuto un ruolo di manovalanza. I mandanti sono sicuramente altri, altrimenti non si spiegherebbe un silenzio durato 29 anni da parte delle istituzioni. "Per me e' stato come un dovere - ha detto ancora Pietro Orlandi - essere qui questa mattina - e sono contento perche' da parte della magistratura italiana c'e' stata finalmente una volonta' di far chiarezza. Finalmente si puo' mettere un punto su questa pista. Emanuela e' stata rapita non perche' Emanuela Orlandi, ma perche' cittadina vaticana".

CASO ORLANDI: PROCURA ROMA, DISPOSTA ANCHE ANALISI OSSARIO

"La perquisizione locale della cripta della Basilica di Sant'Apollinare a Roma e della tomba di Enrico De Pedis" e' stata disposta per procedere "all'ispezione della salma e all'analisi del materiale contenuto nell'ossario presente nella cripta, luogo di sepoltura in epoca pre-napoleonica". Lo afferma, in una nota, il capo della procura di Roma, Giuseppe Pignatone. "L'attivita' investigativa - si legge nella nota - e' finalizzata alla ricerca dei resti di Emanuela Orlandi" o di elementi utili per l'indagine sulla scomparsa della ragazzina di 15 anni.

All'atto istruttorio stanno partecipando "i magistrati titolari del procedimento, ufficiali e agenti di polizia giudiziaria della squadra mobile della questura, della Direzione centrale anticrimine della polizia di Stato, e degli esperti della scientifica" oltre al medico legale (la professoressa Cristina Cattaneo di Milano). Quanto al materiale contenuto nell'ossario, gli inquirenti dovranno verificare se ossa di epoca recente possano essere riconducibili a Emanuela Orlandi.
la fonte: http://www.agi.it

mercoledì 9 maggio 2012

ROTOLI DI QUMRAN E BIBLIOTECA DI NAG HAMMADI



(...) A sua volta, la comprensione-accettazione dell’Essenismo non può essere disgiunta da quella dello Gnosticismo — ebraico ma soprattutto ‘cristiano’ —, che con i suoi innumerevoli “movimenti” e sette caratterizzò profondamente i primi secoli della nascente religio e che dalle dottrine essene trasse in parte la sua origine ed elaborazione teogonica.
Le concezioni gnostiche erano figlie dirette dell’Orfismo, culto “misterico” che proclamava l’immortalità dell’anima e concepiva l’essere umano nel dualismo anima-corpo. Secondo l’Orfismo, nell’uomo alberga un principio divino, un daimon caduto in un corpo per una “colpa” originaria; questo dèmone-anima non solo preesiste al corpo ma non muore con esso, e anzi è destinato a reincarnarsi in corpi successivi — kyklos te geneseos, “ciclo delle nascite” — per espiare quella prima colpa. L’Orphicos bios, la “vita orfica”, con i suoi riti e le sue pratiche (igiene personale, rinuncia ai vestiti di lana, sobrietà nel consumo di carne, uova e fagioli) che dovevano durare per tutta la vita, era per gli iniziati la sola in grado di porre fine al ciclo delle reincarnazioni — Metempsicosi — e di liberare l’anima dal corpo, con un premio nell’aldilà per i “purificati”. L’espressione soma sema, “il corpo, una tomba”, coniata da Platone nel “Cratilo” (v Secolo a.C.), era emblematica della concezione orfica secondo la quale l’anima si trova nel corpo come in una tomba.
Il nucleo centrale della dottrina si deduce da laminette dorate — i cosiddetti “passaporti dei defunti”, risalenti ad un periodo fra il iv Secolo a.C. ed il ii Secolo d.C. — trovate nei sepolcri dei seguaci dell’Orfismo, a Creta, in Tessaglia e nell’Italia meridionale: «Rallègrati, tu che hai patito la passione: questo prima non l’avevi ancora patito. Da uomo sei nato Dio», «Felice e beatissimo, sarai Dio anziché mortale», «Da uomo nascerai Dio perché dal divino derivi». In sostanza, il destino ultimo dell’uomo è “tornare ad essere presso gli dèi”: liberare quanto di dionisiaco gli è proprio — divino, celeste, buono — da tutto ciò che è titanico — terreno, malvagio —. Esattamente come per gli “iniziati” (cioè “coloro che hanno compreso la scintilla divina dentro di sé”) dello Gnosticismo.



Con il mito di Orfeo si incrinò l’ultima visione naturalistica che ancora sopravviveva nelle religioni antiche, quella della spiritualità greca: nella lotta dualistica fra anima e corpo dell’Orfismo, anche in Grecia si affermò la convinzione che alcune tendenze legate al corpo erano da reprimere, e nel sempre più diffuso mito dionisiaco-orfico la purificazione dell’elemento divino da quello corporeo divenne lo scopo dell’esistenza, in un’etica colpa-castigo-espiazione-ricompensa che era ormai patrimonio spirituale comune in tutto il bacino del Mediterraneo.
La maggioranza degli autori biblici ritiene che il male nel mondo sia frutto di un peccato umano “corruttore della buona creazione di Dio”; la maggior parte degli autori gnostici sostiene invece che il male è inciso nella materia stessa del mondo.
Come si arrivò a questo rovesciamento di prospettiva?
La parte più importante della teologia ebraica risale alle tradizioni sull’Esodo: Dio ode il lamento dei figli di Israele, schiavi da secoli, e fa sorgere un profeta, Mosé, che li libera con l’appoggio di Dio stesso (le Piaghe d’Egitto, l’apertura del Mar Rosso, etc.); tempo dopo, però, il popolo “eletto” si trova nella sofferenza e Dio stavolta non interviene. I teologi giudaici tentarono di farsene una ragione: i vari Isaia, Geremia, Osea spiegano che Israele patisce crisi sociali, politiche e militari perché il popolo pecca contro Dio, che lo punisce con “problemi e silenzio”. Succede però che il popolo, pur rimettendosi a seguire strenuamente e ossequiosamente la Legge mosaica — data da Dio —, continua a soffrire: i malvagi prosperano ed i giusti subiscono. E i Grandi Profeti non riescono a chiarirne il perché. Tale difetto portò alla nascita di diverse teologie che andarono in un’altra direzione rispetto ai profeti: Giobbe e l’Ecclesiaste, ma soprattutto gli “apocalittici” — pensatori che sostengono una rivelazione (apokalypsis) diretta di Dio sui motivi di tanto patire.
L’Apocalittica ebraica sorse in un contesto di grande sofferenza due secoli prima di Yeshua; alcuni filosofi, influenzati da concezioni iraniche, conclusero nei loro testi che tanto male non potesse provenire da Dio bensì da un suo avversario, il Diavolo: e invitarono a “resistere un po’ più a lungo perché Dio arriverà presto, con uno sfoggio di potenza cataclismica, a instaurare il bene duraturo”.
Yeshua bar Yosef stesso fu uno di questi apocalittici:
«In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza». (Marco [ix,1])
«In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute». (Marco [xiii,30])
Alla morte di ‘Gesù’, i suoi seguaci credono che tornerà lui stesso a instaurare il Regno, la “vendetta di Dio” sul Male.
Ecco io vi annunzio un mistero: non tutti, certo, moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba; suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati. (i Lettera ai Corinzi [xv,51-52])
Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore. (i Lettera ai Tessalonicesi [iv,15-17])
Ma i decenni passavano, e ‘Gesù’ non tornava. Così, dopo due traumi — prima fallì la spiegazione profetica sul fatto che fosse “Dio a provocare la sofferenza”, poi fu smentito l’ideale apocalittico sul fatto che fosse “il nemico di Dio a provocare la sofferenza” —, l’impianto del ragionamento si incrinò: forse il mondo non è stato creato così male da Dio, forse c’è un “Dio inferiore”, un ignorante e malvagio sotto-Dio, la “creazione” dev’essere la sua, il Dio “supremo” non avrebbe fatto un mondo tanto difettoso.
Con buona pace della logica, che ci informa che questo sotto-Dio, come tutte le altre cose, dev’essere anch’esso opera del “Dio superiore” — e quindi non se ne esce: è sempre colpa del “Dio superiore”! —, lo Gnosticismo affinò l’idea di Dio buono al di sopra e Dio ignorante al di sotto, che già circolava in Mesopotamia, e si diffuse come una specie di apocalitticismo fallito nel quale anche la Cristologia ebbe una sua funzione ben precisa.
Lo Gnosticismo, dunque, non fu altro che il frutto della “ennesima delusione” su Dio.



Messaggi in bottiglia dentro mari di sabbia

La conoscenza dello Gnosticismo e dei suoi testi è rimasta per lunghi secoli legata alle citazioni e ai commenti, molto spesso ostili, delle opere della Patristica cristiana . L’assoluta mancanza di documenti, che non fossero frammenti riportati in altre opere, spesso anche alterati, ha reso in genere difficile la collocazione e la comprensione dello Gnosticismo; tuttavia la scoperta, avvenuta nel 1945 presso il villaggio di Nag Hammâdi (alto Egitto), di una “biblioteca” di testi gnostici — 53 scritti su papiro, in lingua copta —, completata dalla scoperta e dal restauro, ad inizio xxi Secolo, di un ulteriore testo gnostico — il “Vangelo di Giuda” —, ha dato un nuovo insperato impulso agli studi.
Con ritrovamento casuale della stessa natura — come “messaggi in bottiglia dentro mari di sabbia” affidati al trascorrere dei millenni — i “Manoscritti del Mar Morto” o “Rotoli di Qumran” intervennero quasi contemporaneamente, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, dopo varie vicissitudini, ad illuminare gli studiosi sulle comunità essene coeve a ‘Gesù’. Prima di questi ritrovamenti si conoscevano solo alcune citazioni da parte di scrittori antichi — Ippolito Romano, Plinio il Vecchio, Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio —; nel 1947, in una zona desertica a 30 km da Gerusalemme, grazie ad una scoperta fortuita da parte di un pastorello, vennero rinvenute delle giare contenenti dei rotoli di pelle avvolti in brandelli di tela. Il materiale in larga parte fu rivenduto ad un trafficante che a sua volta lo rivendette al governo israeliano. Negli anni seguenti furono rinvenuti, in undici grotte della zona, circa 900 rotoli, alcuni dei quali ridotti in frammenti; ben 200 di essi riguardano libri o parti di libri dell’Antico Testamento; vennero ritrovati anche i rotoli con le “regole della comunità”. Un team internazionale di studiosi — presieduto da padre De Vaux, un domenicano residente in Giordania imposto dalla Chiesa di Roma che temeva “sorprese” da tale ritrovamento archeologico — iniziò a studiare i reperti sin dalla metà degli anni Cinquanta del xx Secolo, fra vicissitudini anche geopolitiche — il territorio passò attraverso le amministrazioni britannica, giordana e israeliana, più le varie guerre israelo-palestinesi — e polemiche; ci vollero più di 40 mosaici anni prima che tutto il materiale fosse messo a disposizione dell’intera comunità scientifica mondiale.
I “codici” di Nag Hammâdi, ritrovati in una giara a 5 km da un monastero cenobita pacomiano, rimasero nascosti per lungo tempo dopo il ritrovamento e in seguito ad una complessa vicenda, dopo essere stati dispersi, furono recuperati e messi a disposizione degli studiosi. I testi contenuti nei codici sono per lo più scritti gnostici, ma includono anche tre opere appartenenti al “Corpus Hermeticum” ed una parziale traduzione della “Repubblica” di Platone. Gli scritti “ermetici” vanno considerati a parte poiché si allontanano decisamente dalle teorie gnostiche largamente diffuse nel resto della “biblioteca”; il loro interesse risiede soprattutto nella marcata ispirazione egizia rispetto ai testi greci e latini del tempo: la religione egiziana non viene rifiutata, piuttosto l’intento è di “spiritualizzarla” — l’Ermetismo non è tanto un sistema religioso quanto una “via” —. Complementari ed esaurienti, espongono l’insieme del percorso iniziatico che conduce alla “illuminazione divina” affermando l’importanza sostanziale del simbolismo, se non addirittura dell’allegoria.
È probabile che i “codici” di Nag Hammâdi appartenessero alla biblioteca di un monastero della zona, e che i monaci li abbiano nascosti per salvarli dalla distruzione quando si cominciò a considerare lo Gnosticismo “eresia”. Non se ne conoscono gli autori, né le circostanze e i luoghi di redazione; sono scritti in copto, benché pare certo che in gran parte siano traduzioni dal greco. L’opera più importante è il “Vangelo di Tommaso”, del quale quello di Nag Hammâdi è l’unico testo completo noto. Grazie al ritrovamento, gli studiosi compararono la presenza di frammenti degli stessi testi nei “frammenti di Ossirinco”, scoperti nel 1898, e furono in grado di collegarli alle citazioni dei “Padri della Chiesa”. La datazione con il radiocarbonio dei manoscritti li fa risalire al iii e iv Secolo d.C. (e in ogni caso i dorsi delle rilegature furono rinforzati con carta straccia composta da ricevute datate al 341, al 346 e al 348), mentre per i testi greci originali è generalmente accettata una datazione fra il 120 e il 200 d.C.: non molto distante dai Vangeli canonici.
I contenuti delineano rivelazioni esoteriche su un “Cristianesimo periferico”, lontano dai centri di discussione teologica. Oltre all’importanza dei manoscritti nell’ambito della storia del libro — si tratta dei più antichi libri ancora esistenti — e della paleografia copta, rappresentano una testimonianza di fondamentale interesse per la storia della filosofia e del ‘Cristianesimo’ primitivo perché propongono interpretazioni e rituali ‘cristiani’ diversi da quelli “ufficializzati” a Nicea nel 325 — e per questo motivo immediatamente ricusati come eretici, quindi raccolti, protetti e nascosti dalle comunità “devianti” —. Gli “gnostici” avevano con i testi sacri un rapporto molto diverso rispetto ai “cristiani ortodossi”: erano particolarmente interessati al senso esoterico delle Scritture, non alla loro storicità; consideravano le cose divine come una conoscenza interiore e segreta, trasmessa attraverso la tradizione e/o l’iniziazione. Come apprendere la sapienza segreta che serve per salvarsi? Non certo guardandosi intorno per farsi un’idea personale del mondo, poiché “il mondo è opera di una divinità inferiore, il Dio cattivo Elohim/Yahweh dell’Antico Testamento”, colui che ha creato le calamità, le carestie, gli affanni, i terremoti, gli uragani, la siccità, le epidemie...; la rivelazione non può che provenire dall’alto, da un emissario del vero Dio: quindi Gesù Cristo.



I “Vangeli gnostici” scoperti a Nag Hammâdi sono meditazioni su ‘Gesù’ e sul modo di intendere il suo messaggio, presuppongono nel lettore una conoscenza del kerygma (l’annunzio ‘cristiano’) e della didaché (i primi approfondimenti dell’annunzio); i loro autori conoscevano la “tradizione sinottica”, anche se probabilmente non nella forma canonica nota oggi. Sono cioè testi di uno Gnosticismo ‘cristiano’, e sono frequentemente d’uno spessore spirituale toccante:
Gesù dissimulò segretamente ogni cosa. Egli infatti non si manifestò quale era realmente ma come lo si poteva vedere: grande ai grandi, piccolo ai piccoli, angelo agli angeli, uomo agli uomini. Perciò il suo Logos si è nascosto a tutti. [...] La verità non è venuta nuda in questo mondo, ma in simboli e in immagini: non la si può afferrare in altro modo. [...] Colui che è incapace di ricevere, a maggior ragione è incapace di dare. La fede riceve, l’amore dà. Nessuno può ricevere senza la fede, nessuno può dare senza l’amore. Per questo appunto crediamo, per ricevere veramente: e così possiamo amare e dare. (“Vangelo di Filippo”)
Ciò che colpisce — e li rende nettamente diversi dai Vangeli ufficiali — è l’atmosfera intellettualista: affrontano chi legge in prima persona e lo mettono di fronte non a racconti bensì a ragionamenti. Non tengono d’occhio l’Antico Testamento tentando di asservirne le tesi per giustificare l’avvento di ‘Gesù’, come avviene artificiosamente nei Quattro Vangeli.
Gesù disse: «Se coloro che vi guidano vi dicono: Ecco il Regno (di Dio) è in cielo! Allora gli uccelli del cielo vi precederanno. Se vi dicono: è nel mare! Allora i pesci del mare vi precederanno. Il Regno è invece dentro di voi e fuori di voi. Quando vi conoscerete, allora sarete conosciuti e saprete che voi siete i figli del Padre che vive. Ma se non vi conoscerete, allora dimorerete nella povertà, e sarete la povertà». (“Vangelo di Tommaso”, loghion 3]
I discepoli gli domandarono: «In quale giorno verrà il Regno?». [Gesù rispose:] «Non verrà mentre lo si aspetta. Non diranno: “Ecco, è qui!”. Oppure: “Ecco, è là!”. Bensì il Regno del Padre è diffuso su tutta la terra, e gli uomini non lo vedono». (“Vangelo di Tommaso”, loghion 113]
Come restare indifferenti di fronte a parole simili, tracce di un messaggio perduto di Yeshua («Il Regno è dentro di voi», «Quando vi conoscerete, allora sarete conosciuti», «il Regno è dappertutto ma gli uomini non lo vedono»)? Il bellissimo senso del loghion 113 viene smarrito nei Vangeli ortodossi, frainteso alla luce della teologia paolina:
«Allora se qualcuno vi dirà: Ecco, il Cristo è qui, o: È là, non ci credete. Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli, così da indurre in errore, se possibile, anche gli eletti». (Matteo [xxiv,23-24])
La conoscenza va cercata, e quando si capisce che tutto ciò che si credeva di sapere su questo mondo è errato, ci si turba: ma proprio allora si capisce la verità, e ci si meraviglia, e quando ciò accade, finalmente si torna al regno divino da cui si è giunti e si regna con gli altri esseri divini su tutto ciò che esiste. Nel mondo materiale non c’è vita, la vita è un fatto dello spirito: una volta che si capisce che cosa è davvero il mondo (morte), gli si è superiori e ci si innalza al di sopra.

Il Vangelo di Tommaso, o “Quinto Vangelo”.

“San” Tommaso è uno dei 12 Apostoli, nonché uno dei più popolari tra essi grazie al suo soprannome, “Didimo”, gemello: il “gemello spirituale” di ‘Gesù’, cui perciò è consentito l’accesso ad “insegnamenti segreti”. Evangelizzatore delle Indie, rifiuta di credere alla Risurrezione prima di avere posato le mani sulle piaghe del maestro.
Presentato sotto forma di un dialogo tra ‘Gesù’ e Tommaso (ma interviene anche una “Maria” che sta con gli Apostoli), il “Quinto Vangelo” è composto da più di cento loghia — che in greco significa “parole”: frasi attribuite a ‘Gesù’ e riportate in terza persona («Gesù disse: ...») — che richiamano (in ben 79 casi) passi dei quattro del Nuovo Testamento, differenziandosene però in maniera significativa verso una concezione gnostica. Il manoscritto di Nag Hammâdi risale a circa il 350 d.C., ma è la traduzione di un originale risalente forse al ii Secolo d.C. (qualcuno sostiene una redazione in lingua siriaca compresa fra il 90 ed il 120 d.C.: contemporanea al Vangelo di Giovanni); gli esperti divergono tuttora sulla sua interpretazione: alcuni ritengono che risalga alle origini di ‘Gesù’, altri addirittura lo considerano la fatidica “fonte Q” di Matteo e Luca — che conterrebbe solo “detti” e non una vera e propria narrazione: convinzione ricavata da una frase di Papias (citata da Eusebio nella “Historia Ecclesiastica”) il quale, parlando delle circostanze in cui Marco scrisse il suo Vangelo, prosegue con «Matteo raccolse le loghia [di ‘Gesù’] in lingua ebraica, e ognuno le interpretò secondo la sua capacità» —, sebbene i punti di convergenza siano obiettivamente inferiori alle divergenze.
Dopo una breve introduzione, il “Vangelo di Didimo Tommaso” si rivela subito come uno scritto esoterico: parole di ‘Gesù’ da non svelare ai profani perché la loro comprensione non è alla portata di tutti ed è apportatrice di vita. Un atteggiamento inconfondibilmente gnostico. Ma nonostante l’autore manifesti più o meno velatamente le sue simpatie dottrinali, egli accoglie e tramanda nozioni di venerabile antichità (molte presenti nei Vangeli canonici, come il “chicco di senapa”, il “nemo propheta in patria”, le “perle ai porci”, il “beati i poveri”, la “zizzania”) che forse possiede già in fonti scritte: una sorgente parallela alla “fonte Q”, che permette di attingere una forma della tradizione evangelica anteriore a quella dei Sinottici, più vicina a quella originale orale? Illuminante il confronto dei seguenti concetti:
Gesù disse: «Vi darò ciò che occhio non vide, ciò che orecchio non udì, ciò che mano non toccò, e ciò che non entrò mai in cuore d’uomo». (loghion 17)
Sta scritto infatti: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano». (i Lettera ai Corinzi [ii,9])
E ancora:
Gesù disse: «I farisei e gli scribi hanno preso le chiavi della conoscenza e le hanno nascoste. Essi non sono entrati e non hanno lasciato entrare quelli che lo volevano. Voi, però, siate prudenti come serpenti e semplici come colombe». (loghion 39]
«Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci». (Matteo [xxiii,13])
«Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe». (Matteo [x,16])
E di più:
Gesù disse: «Da Adamo a Giovanni Battista nessun nato da donna fu più grande di Giovanni Battista, sì che (davanti a lui) egli debba abbassare gli occhi. Tuttavia vi dissi: Tra di voi chiunque sarà piccolo conoscerà il Regno e sarà più grande di Giovanni». (loghion 46)
«In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui». (Matteo xi,11])
Le “chiavi del Regno” usate dai Sinottici divengono “gnosi” nel Vangelo di Tommaso: la gnosi è conoscenza di se stessi e il “Regno” è da ricercare nell’intimo di ogni persona, che è sostanzialmente di origine divina. È una gnosi associata all’identificazione del conoscente con il conosciuto, cioè con Dio. E dunque rispunta: “Dio” uguale “D’io”.
Il legame fra Essenismo e Gnosticismo traspare dal loghion 74:
Egli disse: «Signore, molti sono presso il pozzo, ma nessuno è nel pozzo».
Espressione tramandata pari pari anche da Celso, attaccato da Origene: il “pozzo”, però, tra gli Esseni era simbolo riconosciuto di saggezza e di abbondanza guadagnata con l’operosità.
Un loghion divenuto famoso in tempi recenti è il 121:
Simon Pietro disse loro: «Maria ci lasci, perché le donne non sono degne della vita». Gesù disse: «Io stesso la condurrò per renderla uomo, cosicché anche lei possa diventare uno spirito vivente simile a voi uomini. Poiché ogni donna che si rende uomo entrerà nel regno dei cieli».
Dopo la pubblicazione del “Quinto Vangelo”, le polemiche femministe sono state — giustamente — roventi, ma fuori luogo. È praticamente impossibile capire il significato del brano senza tener presente che nel mondo antico le relazioni tra i sessi erano viste in modo diverso da come sono oggi: il maschio e la femmina non erano considerati due tipi di essere umano, ma due gradi. Come si sa da medici, poeti, filosofi e altri autori del mondo greco e romano antico, la donna era ritenuta un uomo imperfetto, che cioè “non si è sviluppato” — lasciando nell’utero, per qualche strano fenomeno, il pene e i peli e i muscoli maschili —; si credeva che il cosmo intero operasse lungo un continuum di perfezionamento: le cose inanimate erano “meno perfette” di quelle animate, le piante “meno perfette” degli animali, gli animali “meno perfetti” degli esseri umani, le donne “meno perfette” degli uomini, gli uomini “meno perfetti” degli dèi... Le conseguenze nel pensiero filosofico e religioso dell’epoca sono chiare: perché una donna si “perfezionasse” doveva prima passare allo stadio successivo, cioè farsi uomo. La gnosis offerta da ‘Gesù’ alle donne era questa.
Va da sé che un simile Vangelo, senza “buona novella” e con tante affermazioni “compromettenti”, non aveva caratteristiche tali da poter rientrare nella canonicità vincitrice: probabilmente “il suo problema” fu d’esser finito, nella forma originale (la “fonte Q”?), in mano gnostica, e quindi manipolato ideologicamente (così come i Quattro Vangeli sono “finiti” in mani proto-ortodosse, e da esse “aggiustati”).

I Vangeli di Filippo, Maria, Giuda

Nello stesso volume della biblioteca di Nag Hammâdi che contiene il Vangelo di Tommaso — anzi, proprio in continuazione ad esso — si trova il “Vangelo di Filippo”.
Il manoscritto, in copto, conosciuto già ai tempi di Epifanio ma scarsamente menzionato dai Padri della Chiesa, ha una datazione approssimativa che lo colloca intorno all’anno 330 d.C., ma l’originale in greco risale al 120-160 d.C.; i suoi legami con la letteratura evangelica canonica sono ancora più effimeri che nel Vangelo di Tommaso, ed è da ascrivere al gruppo dei “valentiniani”. Molte sue espressioni ricordano versetti neotestamentari (in particolare Giovanni e le Lettere di ‘Paolo’, ma in un contesto e con accezioni ben diverse), e questo fa pensare alla solita fonte comune da cui tutti sembrano aver ricavato le sentenze, sebbene piegandole ai propri “interessi”.
Un suo tema esclusivo è quello dei “misteri”, o sacramenti (5 in tutto), e in particolar modo lo hieros gamos, o “camera nuziale”: che non si riferisce ad un atto sessuale bensì ad un’unione spirituale fra l’essere umano ed il proprio “angelo-immagine” che conduce alla “risurrezione”; una rinascita che avviene già in vita e non dopo la morte (ecco altre tracce d’un messaggio travisato di Yeshua). Nel “mistero” dell’eucaristia si parla di “pane e calice” e non di “pane e vino”.
Alcuni passi sono illuminanti, ed hanno infuocato la nota polemica su Maria Maddalena “sposa” di ‘Gesù’:
17. Taluni hanno detto che Maria ha concepito dallo Spirito Santo. Essi sono in errore. Essi non sanno quello che dicono. Quando mai una donna ha concepito da una donna? [in ebraico all’espressione “spirito” corrisponde il termine Ruah, che è femminile.] Maria è la Vergine che nessuna forza ha violato, e questo è un grande anatema per gli ebrei che sono gli apostoli e gli apostolici. [...] E il Signore non avrebbe detto «mio Padre che è nei Cieli», se non avesse avuto un altro padre, ma avrebbe detto semplicemente «mio padre».
21. Coloro che dicono che il Signore prima è morto e poi è risuscitato, si sbagliano, perché egli prima è risuscitato e poi è morto. Se uno non consegue prima la risurrezione non morirà, perché, come è vero che Dio vive, egli sarà già morto.
32. Erano tre che andavano sempre con il Signore: sua madre Maria, sua sorella, e la Maddalena, che è detta sua compagna. Infatti era [erano?] ‘Maria’ sua sorella, sua madre e la sua compagna.
47. Gli apostoli che sono stati prima di noi l’hanno chiamato così: Gesù Nazareno Cristo. L’ultimo nome è Cristo, il primo è Gesù, quello di mezzo è Nazareno. Messia ha due significati: tanto Cristo che il Limitato. Gesù in ebraico è la salvezza. Nazara è la verità. Perciò Nazareno è quello della verità. Cristo è il limitato. Nazareno e Gesù sono quelli che lo hanno limitato.
55. La Sofia, che è chiamata sterile, è la madre degli angeli. La compagna di [Cristo è Maria] Maddalena. [Il Signore amava Maria] più di tutti i discepoli e la baciava spesso sulla [illeggibile]. Gli altri discepoli allora gli dissero: «perché ami lei più di tutti noi?». Il Salvatore rispose e disse loro: «com’è ch’io non vi amo quanto lei?». [I passi fra le parentesi quadre sono fori nel papiro, ndr]
63. [...] Mentre siamo in questo mondo, è necessario per noi acquistare la risurrezione, cosicché, quando ci spogliamo della carne, possiamo essere trovati nella Quiete [...]
90. Coloro che dicono che prima si muore e poi si risorge, si sbagliano. Se non si riceve prima la risurrezione, mentre si è vivi, quando si muore non si riceverà nulla. Così pure si parla riguardo al battesimo, dicendo che il battesimo è una gran cosa, perché se si riceve si vivrà.
Il “Vangelo di Maria” è un testo noto da due fonti. La prima, il cosiddetto “Papyrus Berolinensis 8502”, è conservato dal 1896 presso il dipartimento di egittologia del museo di Berlino e sembra certa la sua provenienza da Achmin, in Egitto; un secondo frammento greco, noto come “Papiro Rylands III n.463”, proviene dalla raccolta di Ossirinco, in Egitto — sempre da “mari di sabbia”... — e viene datato iii Secolo d.C.. Alcuni dei primi Padri della Chiesa fanno esplicito riferimento nei loro scritti a questo “Vangelo”, disprezzandolo e rifiutandolo duramente.
Il personaggio del titolo (i titoli, per inciso, non aprono ma chiudono tutte queste opere) è Maria Maddalena, cui il testo attribuisce molto rilievo — al punto da lasciare intendere che ‘Gesù’ la anteponga ai suoi stessi Apostoli —. Lo scritto, incompleto per più della metà, si compone di due parti: nella prima ‘Gesù’ risorto risponde alle domande degli Apostoli e affida loro la missione della predicazione del Vangelo, mentre la seconda si apre con l’intervento di Pietro affinché Maria Maddalena riveli le parole dette a lei da ‘Gesù’. Successivamente al racconto di Maria, Andrea e Pietro manifestano la loro incredulità riguardo al fatto che il Salvatore possa aver rivelato ad una donna ciò che non ha rivelato ai suoi discepoli. Infine Levi, biasimando i due uomini, li esorta a seguire gli insegnamenti che il Cristo ha loro impartito.
Ma essi rimasero tristi e piangevano forte. Dissero: «Come possiamo andare dai Gentili e predicare loro il vangelo del regno del figlio dell’uomo? Là non è mai stato dispensato, dobbiamo dispensarlo (proprio) noi?». / E Maria Maddalena: «Non piangete, fratelli, non siate malinconici, e neppure indecisi. La sua grazia sarà con voi tutti e vi proteggerà. Lodiamo piuttosto la sua grandezza, avendoci egli preparati e mandati agli uomini».
Quindi la Maddalena racconta, su insitenza di Pietro, di aver avuto una visione del Salvatore, e ne espone il colloquio intrattenuto — infarcito di idee gnostiche —. Le sue parole non vengono credute:
Ma Andrea replicò e disse ai fratelli: «Che cosa pensate di quanto lei ha detto? Io, almeno, non credo che il Salvatore abbia detto questo. Queste dottrine, infatti, sono sicuramente delle opinioni diverse». / Riguardo a queste stesse cose, anche Pietro replicò interrogandoli a proposito del Salvatore: «Ha forse egli parlato in segreto a una donna prima che a noi e non invece apertamente? Ci dobbiamo ricredere tutti e ascoltare lei? Forse egli l’ha anteposta a noi?». / Maria allora pianse e disse a Pietro: «Pietro, fratello mio, che credi dunque? Credi tu ch’io l’abbia inventato in cuor mio o che io mentisca a proposito del Salvatore?». / Levi replicò a Pietro dicendo: «Tu sei sempre irruento, Pietro! Ora io vedo che ti scagli contro la donna come fanno gli avversari. Se il Salvatore l’ha resa degna, chi sei tu che la respingi? Non v’è dubbio che il Salvatore la conosca bene, perciò amò lei più di noi. Dobbiamo piuttosto vergognarci, rivestirci dell’uomo perfetto, formarci come egli ci ha ordinato, e annunziare il vangelo senza emanare né un ulteriore comandamento, né un’ulteriore legge, all’infuori di quanto ci disse il Salvatore». / Quando Levi ebbe detto ciò, essi cominciarono a partire per annunziare e predicare. / Il vangelo secondo Maria.
Il confronto di Maria con Pietro è uno scenario trovato anche nel Vangelo di Tommaso, nella Pistis Sophia e nel Vangelo degli Egiziani, e riflette alcune delle tensioni nella Cristianità del ii Secolo. Pietro e Andrea rappresentano posizioni “ortodosse” che negano la validità della rivelazione esoterica, rigettando l’autorità delle donne a insegnare: in particolare è Kepha ad essere sempre rappresentato come quello che ha in particolar odio il genere femminile. In questo testo precipuo, nell’ottica gnostica la Maddalena è scelta probabilmente perché rappresenta la nullità del mondo («il mondo ebbe origine da una trasgressione» recita il “Vangelo di Filippo”) e l’esilio dell’anima.
Il “Vangelo di Giuda” è un manoscritto redatto su papiro e legato da un laccio di pelle, probabilmente copiato in copto, ritrovato negli anni Settanta del xx Secolo nel deserto presso El Minya, in Egitto, ed inizialmente datato (con il radiocarbonio) intorno al 280 d.C.. Citato — con disprezzo — per la prima volta da Ireneo attorno al 180 (ne è quindi anteriore), si tratta dell’unico testo che prende le difese di questo discepolo di Cristo, e gli studiosi cercano di dedurre il suo contenuto (con molte riserve) dai lineamenti generali dalla dottrina dei “Cainiti”, esposta dal solo Ireneo senza riscontri storici o di altri autori (Ireneo, nel suo zelo ossessivo, potrebbe anche averla inventata).
Il Vangelo di Giuda contiene nuove informazioni e presenta una visione alternativa del rapporto tra ‘Gesù’ e Giuda: contrariamente a quanto raccontano Matteo, Marco, Luca e Giovanni nel Nuovo Testamento — dove Giuda è notoriamente ritratto come un traditore, che muore suicida per impiccagione (Matteo) o per ventre squarciato (Atti) —, secondo quest’opera Giuda consegna ‘Gesù’ alle autorità su richiesta dello stesso Cristo. L’ipotesi è che ‘Gesù’ abbia segretamente dato istruzioni a Giuda di portarlo alle autorità romane: come già visto in precedenza, si spiegherebbe così la frase a lui rivolta e riportata dal Vangelo di Giovanni «Qualunque cosa tu debba fare, falla in fretta».
Lo scritto narra gli ultimi giorni della vita terrena di ‘Gesù’, il quale appare in contrasto con le usanze, i culti diffusi e con gli stessi discepoli, ritenuti incapaci di comprendere il vero spirito del suo messaggio; tra essi solo Giuda è in grado di servirlo veramente e di mettere in atto i suoi propositi.
«Ma tu sarai maggiore tra loro [gli altri Apostoli]. Poiché sacrificherai l’uomo che mi riveste». (“Vangelo di Giuda”, 137)
Il Maestro chiede quindi a Giuda, “discepolo prediletto” che è il solo altro ad avere in sé la scintilla del divino, di favorire la sua cattura e la sua morte, che lo libererà dal corpo — considerato un mero involucro che nasconde il sé divino —; gli parla poi del vero significato della Genesi ed espone una complicata cosmogonia con numerose emanazioni sovrumane (angeli, angeli del caos, eoni, luminari, tutti guidati dallo Spirito Supremo), di chiara matrice ideologica gnostica. Ci sono due specie di esseri umani: i primi sono uomini dall’anima immortale, creati da Dio secondo l’archetipo; i secondi sono esseri mortali, discendenti da Adamo e generati da un “angelo del caos” (“Nebro” o “Yaldabaoth”, un ribelle lordo di sangue aiutante di “El”, il cattivo demiurgo dell’Antico Testamento, a sua volta aiutato da “Saklas lo stolto”...). I “mortali” — la maggioranza degli uomini — non sono in grado di raggiungere la salvezza e praticano culti in onore di un falso dio, disconoscendo la natura del vero Essere Supremo. Giuda otterrà la salvazione, ma lungo la via “dovrà soffrire”: sarà escluso dai “Dodici” (che negli Atti effettivamente lo sostituiscono con Mattia) e sarà maledetto dalla “razza dei mortali”.
Il Vangelo di Giuda menziona Seth, il terzo figlio di Adamo ed Eva, nato dopo la tragica violenza di Caino e Abele e quindi capostipite di una nuova generazione umana, più illuminata. Inoltre si conclude con una trasfigurazione del discepolo (che entra in una nube lucente) e con la consegna di ‘Gesù’ alle autorità in cambio dei denari — senza accenni alla Crocifissione, che d’altro canto è inutile alla trama e a tutta la concezione gnostica (non è la carne, a risuscitare dopo).
La visione di Giuda emersa dal “suo Vangelo” rappresenta un boccone indigesto per la ‘cristianità’, ma rafforza l’ipotesi presentata in questo mio saggio: Yeshua bar Yosef ha consapevolmente impersonato e avverato le profezie ebraiche.
Per il dogma ‘cristiano’, ‘Gesù’ doveva morire per un “piano divino”, onde poter “espiare i peccati degli uomini”: senza il “tradimento” di Giuda, la Crocifissione avrebbe mai avuto luogo? Forse non nel modo che conosciamo — però sicuramente non avrebbe mai avuto luogo l’antisemitismo, nato e fomentato anche dall’immagine del cattivo giudeo Giuda! —. Nei secoli i lettori ‘cristiani’ si sono sempre cimentati su questo punto: se Cristo doveva morire sulla croce per la salvezza dell’umanità, allora Giuda, consegnandolo, non compì una buona azione? Perché le azioni di Giuda sono così “esemplarmente” cattive? I Quattro Evangelisti non si pongono mai la domanda; il solo Luca racconta che il traditore, invasato “da Satana”, s’informa di quanto può ricavare dalla delazione; Giovanni racconta che il futuro spione è anche l’amministratore del gruppo apostolare. Ogni riflessione sui “perché” viene liquidata senza ulteriori approfondimenti.
Con la locuzione “Manoscritti del Mar Morto” ci si riferisce a quella che è stata definita come la più importante scoperta archeologica del xx Secolo; il terreno su cui sorge il Khirbet Qumran è costituito da una terrazza marnosa che si stende tra il ripido versante roccioso di una montagna del Deserto di Giuda — quel deserto che brucia e ribrucia l’antichissima cicatrice d’una terra che, promessa com’era stata ad alcuni, non ha mai saputo a chi consegnarsi — e il dirupo che sovrasta il Mar Morto. Il fatto che la zona si trovi a 400 metri sotto il livello del Mar Mediterraneo, e che sia incassata tra catene di montagne, rende il clima pesante in tutte le stagioni per l’afa, il gran caldo e l’aria immobile, carica di un’alta percentuale di umidità dovuta alla rapida evaporazione delle acque del lago.
Alla fine del 1951 gli studiosi cominciarono ad interessarsi a tutta l’area attorno alla grotta in cui furono rinvenuti i manoscritti. Ulteriori campagne di ricerca e di scavi portarono, alla fine di marzo del 1956, alla scoperta di altre dieci grotte contenenti manoscritti e resti di vario genere. In origine, nei wadi c’erano circa mille documenti; una parte dei rotoli è stata scoperta e portata via già nell’antichità e nel Medioevo; altri rotoli sono marciti nel corso di circa due millenni senza lasciare tracce o sono stati trasformati dall’umidità in solidi blocchi impossibili da sciogliere. Inoltre, di rotoli originariamente molto grandi, sono rimasti nella maggior parte dei casi solo pochi frammenti. Non di rado i frammenti sono così piccoli che non è stata possibile neppure l’identificazione dell’opera di provenienza.
La grande maggioranza dei testi di Qumran è scritta in lingua ebraica, ma un considerevole numero di essi è redatto in aramaico, lingua strettamente connessa con l’ebraico e usata dalla maggioranza dagli Ebrei di Palestina negli ultimi due secoli a.C. e nei primi secoli d.C. (è l’idioma di Yeshua bar Yosef: bar è la versione aramaica dell’ebraico ben, “figlio di”). Ci sono anche pochi testi dell’Antico Testamento in greco, trovati in due degli undici wadi.
La datazione dei manoscritti è stata effettuata principalmente con il metodo paleografico, vale a dire attraverso l’individuazione della forma e dello stile (variabile nel corso dei secoli) con cui gli scribi hanno redatto i testi. Alcuni manoscritti sono stati datati con il metodo della spettrometria di massa e del radiocarbonio. Sono stati distinti tre periodi paleografici per i rotoli: arcaico (250–150 a.C.), asmoneo (150–30 a.C.) ed erodiano (30 a.C.–68/70 d.C.). La datazione con la spettrometria di massa ha addirittura fornito alcuni termini di gran lunga anteriori (388–353 a.C. per il frammento “4Q534”, 339–324 a.C. per il frammento “4Q365”), segno della longevità sia del sito che della comunità essena.
Ci sono evidenti somiglianze tra i dettagli citati dagli antichi scrittori — i già citati Giuseppe Flavio, Plinio il Vecchio e Filone Alessandrino —, riguardo gli Esseni, e i manoscritti del Mar Morto. In effetti, l’identificazione della comunità di Qumran con gli Esseni è oggi l’opinione della maggioranza degli studiosi che hanno studiato i manoscritti.
E non solo: uno dei grandi motivi di polemica risiede nell’identificazione di due (e forse tre) importanti figure della comunità del Mar Morto, il “Maestro di giustizia” e “l’Uomo di menzogna” (più il “Sacerdote Empio”). Una teoria, giocata sull’accumulo di allusioni nei testi, vuole l’equazione Maestro di giustizia = Giacomo il Giusto (fratello di ‘Gesù’) e Uomo di menzogna = ‘Paolo’ di Tarso, un’altra propone Maestro di giustizia = Giovanni il Battista e Sacerdote Empio = ‘Gesù’.
Il contenuto dei Rotoli è vario.
Il testo “1QIsa” — datato paleograficamente al 125–100 a.C. e con il radiocarbonio al 202–107 a.C. — contiene tutti i 66 capitoli del “Libro di Isaia” e rende testimonianza della fedeltà con cui tale libro è stato copiato nei secoli dagli scribi ebrei — è sostanzialmente identico al testo masoretico, di mille anni posteriore.
“1QS”, il Serek hayyahad, più comunemente chiamato “Regola della comunità” o “Il Manuale di disciplina”, datato al 100–75 a.C., è la copia di un regolamento comunitario scritto in calligrafia asmonea e contiene undici colonne di uno scritto settario ebraico; ha un’introduzione che fissa lo scopo e il fine della comunità insediata a Qumran, descrive poi il rito d’ingresso nell’alleanza della comunità, i principî teologici settari — ad esempio la dottrina dei due spiriti —, il codice penale, il testo di un inno di lode al Creatore.
“1QM”, il Milhamah, anche detto “Regola della guerra”, scritto in calligrafia erodiana, composto verso la fine del i Secolo a.C., è un libro di istruzioni per una guerra escatologica di quarant’anni che la comunità di Qumran, chiamata “i figli della luce”, pensa di intraprendere insieme a Dio e ai suoi angeli, contro i suoi nemici, “i figli delle tenebre”, alla fine dei tempi. Inizia con una generica descrizione della guerra a venire, il massacro finale e la distruzione dei “figli delle tenebre”. Più in dettaglio, detta regole circa le trombe, gli stendardi e gli scudi da usare nella lotta, e descrive l’ordine di battaglia e le armi della fanteria!
“1QH”, gli Hodayot, ossia gli “Inni di ringraziamento”, così chiamati perché molti degli inni iniziano con le parole odeka adonai, «ti ringrazio o Signore», sono scritti in calligrafia erodiana, datata paleograficamente al 50 a.C.–68 d.C., e raccolgono 25 salmi o inni rassomiglianti ai Salmi canonici, che tendono ad imitare. In questi testi si trovano le stesse terminologie usate da ‘Gesù’ nel celebre passo delle “Beatitudini” (Matteo [v,3-5]): i “poveri nello spirito”, quelli “che piangono” e i “tolleranti”.
“3Q15”, il “rotolo di rame”, due sezioni di un testo inciso su una piastra di rame, datato verso il 100 d.C., è l’unico documento scritto su un materiale diverso dal cuoio o dal papiro. Quando è stato trovato, il rotolo era talmente ossidato che è stato impossibile srotolarlo; per poterne leggere il contenuto è stato necessario tagliarlo in strisce verticali. Negli studi qumranici questo testo rappresenta una specie di enigma, perché nessuno sa che cosa rappresenti o che cosa l’autore voglia dire. Il contenuto è formato da dodici colonne di testo che elencano una lista di 64 località della Palestina in cui si ritiene che siano nascosti dei tesori in metallo e altri materiali preziosi. Forse fa riferimento al “tesoro del Tempio” messo al sicuro prima che Tito e le sue truppe irrompessero intorno al 70 d.C. durante la guerra che portò alla distruzione della capitale. (Il prof. J.M. Allegro, credendo che la lista parlasse di un reale tesoro sepolto, diresse una campagna di scavi nel 1962 in alcuni dei siti facilmente identificabili nel testo, ma non trovò nulla.)
“7Q5” è un blocco di frammenti simili ad un passo del Vangelo di Marco, o forse della Genesi in greco.
“11QMelch/11Q13”, datato paleograficamente tra la fine del i Secolo e l’inizio del ii Secolo a.C., è composto di tredici frammenti dai quali si sono ricavate due colonne: può essere riguardato come una sorta di targum, una parafrasi dei passi biblici che serve a spiegare e a interpretare i brani delle sacre scritture, in particolare della figura di Melchisedec, identificata come “creatura celeste” e “Messia”.
“11QTemple/11Q19”, il “Rotolo del Tempio”, datato con il radiocarbonio al 97 a.C.–1 d.C., è un testo ebraico (più lungo) del libro di Isaia, conservato in 66 colonne e scritto in calligrafia erodiana. Questo testo sembra aver rappresentato, per la comunità di Qumran, una seconda Torah: esso non solo cita molte norme del Pentateuco, ma spesso le affina e le riformula in modo da renderle più stringenti e rigorose. Le sue esigenze di purificazione cultuale, in particolare, sono molto rigide. L’inizio frammentario del rotolo contiene alcune parole che richiamano la seconda Alleanza stipulata sul monte Sinai (Esodo [xxxiv]). Segue una lunga sezione che riguarda il Tempio, con le relative feste e i sacrifici. Il “tempio” che viene descritto qui non corrisponde ad alcuno dei santuari storici d’Israele: è pensato come modello di un nuovo tempio da costruire in futuro, dopo la “vittoria dei giusti”. È uno dei 30 manoscritti del Mar Morto non biblici che contengono il Tetragramma biblico Yhwh.
Uno dei testi più interessanti è il “Documento di Damasco”, già in parte conosciuto in Occidente prima dei ritrovamenti di Qumran. Si fa riferimento al “Maestro di giustizia” che porta gli Ebrei nel deserto, a “Damasco” (da qui Qumran uguale “Damasco di Paolo”), per formulare in questa nuova sede un rinnovato patto (notare che “nuovo patto” venne tradotto in greco con “nuovo testamento”: forse fu qui l’origine del termine che identifica la parte ‘cristiana’ della Bibbia!) con Dio; si parla di altre “sedi” disseminate in tutta la Palestina (a riprova di un Essenismo diffuso proprio come sostiene Giuseppe Flavio, quando nella “Guerra giudaica” [ii,8,4] narra che i «messaggeri esseni non portavano provviste con sé poiché ovunque andassero c’erano gruppi di esseni che li rifocillavano»), e vengono elencate regole riguardanti il matrimonio e i figli (non c’erano quindi solo Esseni “celibi”!). Il testo accenna a due messia — un profeta chiamato “Astro” ed un principe della stirpe di Davide chiamato “Scettro” (il Battista e il Cristo?) — fornendo più largo credito all’ipotesi che il messianismo giudaico fosse in attesa di due figure, una “sacerdotale” ed una “regale”, e non una sola.
Altro documento di rilievo è il “Pesher (commento) ad Abacuc”, una specie di cronaca degli avvenimenti della sede essena del Mar Morto; anche qui si fa riferimento al trauma provocato dall’Uomo di menzogna, il quale determina una sorta di scisma in seno alla comunità “traviandone” con la sua predicazione una parte dei membri. Si accenna anche ad un “Sacerdote Empio”, ma non è chiaro se coincida o meno con l’Uomo di menzogna.
Il “messaggio in bottiglia” rinvenuto a Qumran ha fornito agli studiosi del Giudaismo e del ‘Cristianesimo’ antico una inaspettata quantità di fonti per meglio comprendere la società e l’ideologia della Palestina in cui fu all’opera Yeshua, ma è stato anche sfruttato per diffondere interpretazioni insostenibili. Fin dall’inizio della pubblicazione su larga scala c’è stato un confronto con i testi del Nuovo Testamento e si è incominciato ad evidenziarne analogie e differenze. La spiegazione più seguita è che si tratti di due movimenti che affondavano le radici in un terreno comune, ma con sviluppi in gran parte indipendenti; alcuni studiosi hanno proposto una parziale identificazione dei protagonisti dei due corpi letterari. Su questo terreno si è generato un feroce dibattito che contrappone la pletora degli studiosi di Qumran, di Ebraismo, di Nuovo Testamento e di ‘Cristianesimo’ antico ad uno sparuto gruppo di studiosi, scrittori e giornalisti la cui voce è stata potentemente — e spesso irresponsabilmente — amplificata dai mezzi di comunicazione di massa. Le discussioni sono andate di pari passo con una accesa — e giustificata — polemica sulla lentezza delle pubblicazioni dei manoscritti di Qumran e con l’accusa di monopolio dei testi da parte di una ristretta équipe di studiosi orientata ideologicamente, che ne avrebbe anche fissato una interpretazione edulcorata su intrighi orditi all’ombra del Vaticano...
Al di là delle polemiche e delle teorie cospirative, è un fatto che sia la “biblioteca” di Nag Hammâdi che i Rotoli di Qumran rappresentino uno “scomodo problema” per le certezze della Chiesa di Roma, i cui dogmi quasi bimillenari non prevedono “Essenismi giudaici”, “Essenismi cristiani”, “Mitraismi” e “Gnosi” varie.
Che dire di una conoscenza salvifica che non ha bisogno di intermediari (i preti) per essere raggiunta, come quella propugnata dagli Gnostici? Come può essere accolto il fatto che il sacerdote esseno (detto “Messia d’Israele”), già prima dell’Ultima Cena, benedice il pane e il vino? E che dire del collegamento fra gli Esseni e gli Zeloti, un gruppo facilmente identificabile con almeno una parte delle aspettative intorno a ‘Gesù’ “liberatore d’Israele”, nel già citato passo di Ippolito Romano?
Altri [esseni] udendo qualcuno discorrere di Dio e delle sue leggi, si accertano se è incirconciso, attendono che sia solo e poi lo minacciano di morte se non si lascia circoncidere; qualora non acconsenta essi non lo risparmiano, lo assassinano: è appunto da questo che hanno preso il nome di Zeloti, e da altri quello di Sicari. (Ippolito Romano, “Refutatio” [ix,26])
Anche gli Zeloti furono oggetto di censura da parte della Chiesa di Roma, sebbene per una motivazione accessoria.
Gruppo politico-religioso giudaico apparso all’inizio del i Secolo, gli Zeloti erano partigiani accaniti dell’indipendenza politica del regno ebraico, nonché — quali esseno-giudaici — difensori dell’ortodossia e dell’integralismo ebraici. Fondati da Giuda “il Galileo”, ebbero stretti rapporti con la comunità di Qumran (evidenti nel “Rotolo della guerra”) e svolsero un ruolo importante nella grande rivolta del 66–70; lo Zelotismo si impadronì gradualmente delle masse, urbane e ancor più di campagna, le portò al fanatismo e le condusse alla violenza dei predoni e dei Sicari, che portarono alla catastrofe finale della Prima Guerra Giudaica. La caduta di Gerusalemme non bastò a segnarne la sconfitta: gli ultimi Zeloti, con a capo Eleazaro, si rifugiarono in un estremo tentativo di resistenza nella fortezza di Masada, a sud del deserto di Giuda, vicino al Mar Morto. Quando si videro perduti, nel 74 d.C. tutti i 960 Zeloti si diedero la morte.
Però, mentre il paese veniva così ripulito, in Gerusalemme nacque una nuova forma di banditismo, quella dei cosiddetti Sicari [Ekariot], che commettevano assassini in pieno giorno e nel bel mezzo della città. Era specialmente in occasione delle feste che essi si mescolavano alla folla, nascondendo sotto le vesti dei piccoli pugnali [sicae], e con questi colpivano i loro avversari; poi, quando questi cadevano, gli assassini si univano a coloro che esprimevano il loro orrore e lo facevano così bene da essere creduti e perciò non era possibile scoprirli. (Giuseppe Flavio, “Guerra Giudaica” [ii,13,3.254-255])
Giuda il Galileo si pose come guida di una quarta filosofia. Questa scuola concorda con tutte le opinioni dei Farisei eccetto nel fatto che costoro hanno un ardentissimo amore per la libertà, convinti come sono che solo Dio è loro guida e padrone. Ad essi poco importa affrontare forme di morte non comuni, permettere che la vendetta si scagli contro parenti e amici, purché possano evitare di chiamare un uomo “padrone”. (Giuseppe Flavio, “Antichità Giudaiche” [xviii,1,6.23])
È facile desumere da qui che lo “zelotismo” non fu che un fariseismo fanatico, capace di passare dal piano religioso a quello politico con il pretesto di non obbedire ad altri che a Dio.
Fra i tanti termini che indicavano i combattenti messianisti (in greco Chrestianoi!) sono degni di rilievo l’ebraico Bariona — soprannome di Pietro — ed il latino Galilaei — come sono chiamati ‘Gesù’ e i “Dodici” —: con certezza, gli Apostoli erano coinvolti nel movimento con Simone (detto per l’appunto “Zelota” in Luca [vi,15] e Atti [i,13]), mentre è più articolata la questione circa il coinvolgimento degli altri — Giuda detto “Iscariota”, cioè Ekariot (Sicario), Simon Pietro detto “Bariona” —. Ma c’è un passo sintomatico del Vangelo di Luca in cui Giacomo di Zebedeo e suo fratello Giovanni chiedono a ‘Gesù’ il permesso di incendiare un villaggio di samaritani dal quale il Cristo e i suoi seguaci sono stati respinti:
... entrarono in un villaggio di Samaritani per fare i preparativi per lui. Ma essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?...». (Luca [ix,51-56])
A quell’epoca, era costume degli Zeloti colpire con il fuoco case e villaggi di collaborazionisti e nemici: il passo fu evidentemente manomesso per renderlo meno compromettente. Cosa che stranamente invece non avvenne con un altro passo, comune a Matteo e Luca, che da duemila anni imbarazza la Chiesa (la quale tenta di spacciarlo per “allegoria”):
«Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada». (Matteo [x,34])
Poi disse: «Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?». Risposero: «Nulla». Ed egli soggiunse: «Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una». (Luca [xxii,35-36])
Matteo ne parla quando la Passione è ancora ben lontana; Luca “aggiusta” il versetto e lo situa dopo l’Ultima Cena: il momento dovette sembrargli più plausibile poiché poco dopo, nella concitazione del Gethsemani, compare la spada che tronca l’orecchio del servo Malco. In ogni caso in Matteo avvenne un cambio di termine che rese meno “imbarazzante” l’impegno di lotta politica armata che, se non Yeshua, caratterizzava sicuramente almeno una parte del suo seguito:
Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà». (Matteo [xvi,24-25])
Perché si parla di «perdere la propria vita»? Perché è la fine quasi sicura che fanno i rivoltosi, gli oppositori a Roma. La “croce” non ha alcun senso, in tale contesto. Il reale senso delle parole «chi vorrà salva la vita la perderà, chi a causa mia perderà la vita la troverà» è: se lotti insieme a me, forse verrai ucciso, ma avrai almeno raggiunto la salvezza dell’anima, perché avrai tentato; se invece rinunci a lottare per liberare il tuo popolo, forse sopravviverai, ma di sicuro non sarai più in pace con te stesso. Ecco il passo di Matteo riacquistare senso con dentro il termine censurato:
Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua spada e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà».
È questa la “motivazione accessoria” per la censura sugli Zeloti: l’elemento zelota nell’originale gruppo di Apostoli venne mascherato e sovrascritto per dar modo alla “chiesa di Paolo” di assimilarsi all’elemento romano e di far proseliti tra i “Gentili”.
La comunità di Qumran presenta similitudini notevoli con la testimonianza evangelica: infatti nell’attesa della liberazione dall’oppressione romana, si posero in conflitto con la classe politica e sacerdotale (i Sadducei etichettati come collaborazionisti) gli Scribi ed i Farisei messi alla berlina anche da ‘Gesù’ («farisei, sadducei, scribi, pubblicani... guai a voi!», in Matteo [xxiii]).
Si è già visto che alcune usanze essene erano uguali a quelle ‘cristiane’ dei primi secoli: ciò può essere dovuto alla comune origine giudaica e all’uso delle medesime scritture bibliche, ma i numerosi paralleli esistenti tra gli scritti di Qumran e i Quattro Vangeli hanno convinto un buon numero di studiosi del fatto che le dottrine e le tradizioni delle comunità essene abbiano costituito la base fondamentale sulla quale si sviluppò successivamente il ‘Cristianesimo’. Del resto, la qualifica di ‘cristiani’ apparve solo dal 50 d.C. (dando per scontato che ‘Paolo’ sia esistito e, soprattutto, abbia agito in tale epoca), come è riconosciuto dallo stesso testo neotestamentario...
Rimasero insieme un anno intero in quella comunità e istruirono molta gente; ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati Cristiani. (Atti degli Apostoli [xi,26])
...e solo in seguito venne usata per descrivere un’ampia parte di quel “mondo d’oltremare” cosmopolita e non-violento, carico di martiri pacifisti, che ormai aveva poco a che spartire con la Palestina zelota, xenofoba e “apocalittica”. Nella letteratura qumranica si evidenzia un’élite messianica che si “separa” ritirandosi nel deserto, in conformità alle parole di Isaia, preparandosi ad essere “raggiunta dagli angeli” per affrontare la “guerra definitiva contro il male”. Lo stesso Giuseppe Flavio (“Vita” [i,10-12]) fa apprendistato per 3 anni nel deserto al seguito dell’esseno Banno (il passo ispirò il ‘Gesù’ “nel deserto”?).
Anche l’archeologia legittima l’ipotesi della parentela esseno-cristiana. Addirittura, le scoperte dell’archeologo padre Bargil Pixner hanno evidenziato che il primo luogo di riunione dell’atavica comunità ‘cristiana’ a Gerusalemme — nonché presunta sede di svolgimento dell’Ultima Cena — era ubicato nelle immediate vicinanze del quartiere degli Esseni: in sostanza Esseni e primi ‘cristiani’ vivevano, almeno nella capitale, porta a porta! Cosa può rendere più plausibile l’ipotesi di contatti diretti e frequenti tra Esseni e ‘cristiani’? In più, alcune evidenze di ordine storico hanno convinto molti studiosi del fatto che siano avvenute conversioni in massa di Esseni al ‘Cristianesimo’.
Sia gli Esseni che i primi ‘cristiani’ erano Ebrei che condividevano alcuni testi sacri e appartenevano alla stessa cultura; tuttavia, ciò che maggiormente caratterizzava la comunità essena nei confronti delle coeve scuole giudaiche consisteva nella introduzione di particolari sincretismi religiosi estranei al Giudaismo tradizionale. Il gruppo degli Esseni subì influssi esterni all’Ebraismo: la sottolineatura del dualismo bene-male, l’atteggiamento di venerazione di fronte al Sole, la dottrina sugli “angeli”, la presenza di bagni rituali, si collegano tutti a tradizioni iraniche; il celibato, il cenobitismo, la riprovazione dei sacrifici cruenti e dell’olio rinviano a tradizioni buddhiste, anche se non sono disponibili documenti comprovanti contatti culturali tra India e Palestina nel periodo ellenistico-romano; quanto al silenzio comunitario, agli anni di noviziato, alle vesti bianche, alle prescrizioni della dieta, all’esoterismo della dottrina garantita dal giuramento, all’escatologia, il collegamento con le scuole filosofiche greche viene quasi spontaneo, specie con la tradizione pitagorica.


Tali divergenze, presenti anche nel ‘Cristianesimo’ successivo, fanno supporre significative convergenze tra Essenismo e ‘Cristianesimo’ giudeo-cristiano (Elcasaiti, ma soprattutto Ebioniti: ebrei seguaci di ‘Gesù’ alla luce del suo ebraismo, i quali credevano che fosse effettivamente il Messia ebreo mandato dal Dio ebreo al popolo ebraico, e che rappresentasse il “sacrificio perfetto” e finale per la redenzione dei peccati, superando da allora la necessità di sacrificare animali).
Per quanto riguarda le analisi filologiche comparative, tra gli scritti di Qumran e il Nuovo Testamento le rassomiglianze sono nette. Un testo particolare, una data espressione o titolo trovano in entrambi corrispondenze sorprendenti; le formule introduttorie del Nuovo Testamento sono invariabilmente più vicine alle formule di Qumran che alle formule mishnaiche, e talvolta sono perfino traduzioni letterali delle formule di Qumran.
«La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
«Camminate mentre avete la Luce, perché non vi sorprendano le Tenebre; chi cammina nelle Tenebre non sa dove va. Mentre avete la Luce credete nella Luce, per diventare Figli della Luce».
«Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre».
Passi del Vangelo di Giovanni da rileggere alla luce di queste frasi molto più antiche:
Per il saggio affinché ammaestri tutti i Figli della Luce [...] In una sorgente di Luce sono le origini della verità e da una fonte di Tenebra le origini dell’ingiustizia. (“Regola della Comunità”)
«...allorché i Figli della Luce porranno mano all’attacco contro il partito dei Figli delle Tenebre...». (“Regola della Guerra”)
Anche Luca conferma che ‘Gesù’ li conosce con lo stesso appellativo, sebbene lo usi per sottolinearne una critica:
«[...] I figli di questa società, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce». (Luca [xvi,8])
Ne parla pure ‘Paolo’ (anche se la paternità del testo è incerta):
Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; [...]. (Lettera agli Efesini [v,8])
Certo la visione d’insieme è ancora lontana dal far affermare che “Gesù era un Esseno”; però non è esagerato dire che prima delle scoperte di Qumran la figura di Gesù Cristo equivaleva ad un frutto meraviglioso ed esotico, mentre oggi possiamo contemplarlo ancora sul suo albero, assieme a frutti diversi ma pure dotati di una linfa comune, che ciascun ramo trasforma a suo modo. Proprio i testi di Qumran consentono, come nessun altro testo, di comprendere le radici di questo albero e delle sue diverse ramificazioni, nonché di vedere come questa linfa comune venga trasformata in frutti molto differenti.
Quasi a riprova della metafora albero-frutti, anche le differenze con la dottrina su ‘Gesù’ sono sostanziali — confermando l’esistenza di più di un singolo Essenismo —, specialmente per quanto riguarda il complesso sistema di norme che regolava il tipico modo di vivere esseno, che sono riassumibili in quattro paradigmi: Ascetismo, Legalismo, Ritualismo ed Esclusivismo.
Nel primo caso, la personalità del ‘Gesù’ tratteggiata dai Vangeli e predicata dagli Apostoli è tutt’altra: Yeshua bar Yosef si schiera contro l’ascetismo, non insegna ad alienarsi dal mondo come richiede il codice di vita esseno ma ad andare anzi verso il mondo, a predicare il vangelo di salvezza (l’ascetismo ‘cristiano’ inizierà a manifestarsi due secoli dopo con Sant’Antonio, i “Padri del deserto” e Pacomio; in occidente ancora piu tardi con San Benedetto e San Bernardo). I ‘cristiani’ potrebbero ritirarsi ai margini della società come il gruppo di Qumran e tenere gli occhi fissi al cielo nell’attesa del ritorno del Figlio dell’Uomo. In questo caso abbandonerebbero il mondo alle potenze malvagie, riservando a se stessi uno spazio protetto e privilegiato. Comportandosi così però la Chiesa non crederebbe veramente in Dio, e il significato di ‘Gesù’ sarebbe limitato al futuro apocalittico. Per la stessa ragione, la comunità ‘cristiana’ non si dà regole ascetiche né in materia di sesso, né di alimenti, né di vestiario.
Nel caso del Legalismo, nella comunità ‘cristiana’ primitiva mancava ciò che era fondamentale a Qumran: la suddivisione dei membri in classi, la definizione dei diritti e dei doveri all’interno di ciascuna di esse — per esempio il minuzioso codice di procedura per le assemblee e per i pasti —. ‘Gesù’ afferma esattamente il contrario scontrandosi proprio con i fautori del legalismo — i cosiddetti “Farisei” —, da lui accusati di imporre pesi insostenibili sulle spalle della gente.
Per quanto riguarda il terzo aspetto, il Ritualismo, ‘Gesù’ è uno che vìola il sabato e le prescrizioni rituali: è spesso accusato di essere uno che mangia e beve con i peccatori e le prostitute — cosa inconcepibile per un esseno, che, prima di mettersi a tavola, doveva purificarsi con abluzioni rituali e vestirsi di bianco.
E c’è poi l’Esclusivismo: mai un esseno avrebbe avuto contatti con donne straniere, ‘Gesù’ invece incontra e parla con la samaritana, che se ne meraviglia (Giovanni [iv,5]), e accetta di essere unto d’olio profumato dalla peccatrice scandalizzando il “fariseo” che lo ha invitato alla sua tavola (Matteo [xv,22]). Il testo del rotolo “1Qsa 2.3-8” vieta l’ammissione alla tavola della mensa di storpi e zoppi; ‘Gesù’ afferma di esser venuto per loro e addirittura racconta la parabola del gran convito (Luca [xiv,12-14]). Nel testo del rotolo “4Q266” è raccomandato: «stupidi, folli, matti, ciechi, storpi e zoppi non siano accettati nella comunità», ‘Gesù’ invece va in cerca di loro (Luca [v,27-37]), ed entra in casa di Simone “il lebbroso” (Marco [xiv,3]): cosa imperdonabile per un esseno.
Qumran radunava eletti e giusti, ‘Gesù’ cerca peccatori. Il gruppo di ‘Gesù’ è una comunità aperta e vi fanno parte tutti quelli che lo vogliono, il gruppo damasceno fu una comunità chiusa e segreta; degli Apostoli si conoscono i nomi, degli Esseni era vietato divulgarli...
E accanto ad una dottrina su ‘Gesù’ che diverge, si registra un quadro storico affascinante nel quale i “comprimari” di ‘Gesù’ (il fratello Giacomo e Saulo di Tarso), che sono alla base della dottrina ‘cristiana’, sembrano convergere in modo impressionante con i contenuti qumranici indicando in che modo Essenismo e ‘Cristianesimo’ divennero due strade distinte che non si incontrarono più.
Letta indifferentemente dal lato del Nuovo Testamento o dal lato del “Commento ad Abacuc”, la storia raccontata appare una sola... Giacomo “il Giusto” (Saddiq, stessa origine di “Sadducei”) è un modello di rettitudine a capo d’una comunità religiosa i cui membri sono “zelanti della legge” — cioè Zeloti, e quindi Esseni: con “Sadducei”, tutti termini intercambiabili —; egli si trova a lottare con due distinti avversari: un estraneo che, dopo aver perseguitato la comunità, si converte ed è ammesso al suo interno (‘Paolo’, che ritrova la vista a “Damasco” dopo l’imposizione delle mani dello “stimato Anania”), salvo poi diventare un rinnegato (“Uomo di menzogna”) che si appropria dell’immagine di ‘Gesù’ e la stravolge («il mio, avuto “per rivelazione”, è l’unico vero Cristo»), causando un terremoto a Qumran (sono le stesse trasgressioni per le quali, negli Atti degli Apostoli, Saulo/‘Paolo’ sta per essere ucciso?); ed uno esterno alla comunità, il Sommo Sacerdote Anna (il “Sacerdote Empio”), uomo corrotto ed odiato, collaborazionista, che in seguito lo farà pure uccidere, per poi venire a sua volta ucciso dai discepoli di Giacomo che ne profaneranno il cadavere. A ben guardare, in effetti ‘Paolo’ è ossessionato dal desiderio di discolparsi da implicite accuse di “menzogna”:
Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto banditore e apostolo — dico la verità, non mentisco —, maestro dei pagani nella fede e nella verità. (i Lettera a Timoteo [ii,7])
Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. (ii Lettera ai Corinzi [xi,31])
Perfino l’unico elemento che non si concilia con questa lettura parallela — persecuzione e morte di Giacomo avvenute a Gerusalemme, laddove il Pesher parla solo di cronache “qumraniche” — sembra trovare esplicita spiegazione negli stessi Rotoli, quando si narra che nel periodo dei fatti “i capi della comunità risiedono nella capitale” (particolare confermato dai citati scavi archeologici di Pixner).
In realtà l’atteggiamento ostracistico della Chiesa Romana ha finito per impedire una corretta lettura del contesto, dando vigore ad una doppia equazione (Maestro di giustizia = Giacomo il Giusto e Uomo di menzogna = ‘Paolo’/Saulo di Tarso) che, per quanto sexy possa apparire, può essere facilmente smentita dall’analisi della Giudea dell’epoca: basta fare un passo indietro e verificare tramite gli storici.
La conquista pompeiana della Siria nel 63 a.C. determinò nuovi equilibri e problemi per l’area mediorientale: in Palestina, annessa all’Impero in qualità di protettorato, c’era il conflitto tra i due fratelli Aristobulo e Ircano ii appartenenti a quel casato degli Asmonei che faceva risalire la sua ascendenza alla stirpe di Davide. Pompeo, eletto arbitro della contesa, decise in favore del capo sacerdote Ircano scontentando i sostenitori di Aristobulo, i quali organizzarono una rivolta armata. La successiva repressione romana della rivolta portò all’occupazione di Gerusalemme e alla profanazione del Tempio da parte dei legionari — cosa che scatenò l’odio degli Ebrei —. Sin dai tempi di Erode il Grande, l’ingresso nell’atrio interno del Tempio era stato interdetto, sotto pena di morte, ai non circoncisi: un’iscrizione greca del Tempio erodiano ritrovata nel 1871 recita «Nessuno straniero metta piede entro la balaustrata che sta attorno al Tempio e nel recinto. Colui che vi fosse sorpreso, sarà la causa per se stesso della morte che ne seguirà». Si trattava di uno dei rari casi in cui ai soldati giudei era lecito mettere a morte un uomo.
Sedata la rivolta e riconfermato Ircano al trono di Gerusalemme — sotto tutela del ministro idumeo Antipatro, uomo di fiducia di Pompeo e per alcuni studiosi all’origine del nome “Panthera” —, Pompeo partì per Roma lasciando di presidio una legione a Gerusalemme. All’epoca il territorio giudaico comprendeva approssimativamente Perea e Giudea da una parte e Galilea dall’altra; la Samaria, perenne dissidente della comunità culturale di Gerusalemme, in mezzo, ne era esclusa e separava il regno in due. Giulio Cesare, vinta la guerra civile, riconfermò (47 a.C.) l’assetto dato da Pompeo alla Palestina: Ircano ii al trono di Gerusalemme con la tutela di Antipatro. Nella successiva guerra in Oriente, Cesare venne soccorso da Erode (44 a.C.), figlio di Antipatro, che si schierò con lui nella repressione contro i rivoltosi di Ezechia, figlio di Aristobulo, al fine di ipotecare la successione agli Asmonei sul trono di Gerusalemme. La cosa suscitò grande scandalo, tanto che alcuni sacerdoti chiesero inutilmente a Ircano la condanna di Erode.
Il movimento yahwista idealizzò in chiave antiromana il martirio di Ezechia, e identificò in Erode “l’Uomo di Menzogna” e in Ircano il “Sacerdote Empio”, finendo per accentuare un dualismo tra “mondo della luce” e “mondo delle tenebre”.
Ecco l’origine dei termini!
Nel 40 a.C. Antigono, figlio di Aristobulo, con l’aiuto dei Parti spodestò Ircano infliggendogli una mutilazione che gli precluse il sacerdozio; Erode, fuggito a Roma, si fece nominare re di Giudea e nel 37 a.C. conquistò il trono uccidendo Aristobulo. Per i Romani, Erode divenne l’uomo chiave della regione, il pacator orbis, e in ricompensa il governo di Roma aggiunse al regno erodiano Samaria, territori del nord-est (Gaulanitis, Trachonitis, Batanaia) e delle città costiere (Gadara e Hippos). Al rientro di Ircano dalla prigionia, Erode fece uccidere lui e tutti i suoi discendenti (che potevano contestargli il regno) ed eredi, compresa la moglie ed i due figli avuti da lei: probabilmente la “Strage degli Innocenti” riportata dai Vangeli — della quale non si hanno evidenze storiche — trae spunto proprio da questo episodio!
Eliminata la discendenza di Ircano, la “legittima” rivendicazione del trono era ora esclusiva della discendenza di Aristobulo. L’opposizione ad Erode e alle influenze ellenistiche che egli rappresentava — a Gerusalemme intervenne non solo promuovendo un radicale abbellimento del Tempio ma anche con la fondazione di un tempio ad Augusto —, si saldarono con le istanze di coloro che predicavano la “Nuova Allenza”, i quali inaugurarono rituali basati sul battesimo e sui pasti in comune e disprezzarono con foga la nuova Gerusalemme («città di vanità») costruita “dall’Uomo di Menzogna”.
La morte di Erode nel 4 a.C. indebolì notevolmente il controllo romano dell’area a causa di una complicata successione al trono tra i suoi tre figli: Archelao (etnarca e re di Giudea, Samaria e Idumea) deposto nel 6 d.C. per l’incompetenza dimostrata, Erode Antipa (tetrarca e re di Perea e Galilea fino al 39 d.C.), Filippo (tetrarca e re, fino alla morte nel 33/34 d.C., dei territori del nord-est).
Giuda “il Galileo”, figlio di Ezechia, pretendente al trono di Gerusalemme quale asmoneo, approfittò della situazione e con un esercito formato da esseno-zeloti attaccò i Romani di stanza a Gerusalemme, provocando una reazione che terminò solo dopo ben tre interventi da parte di Quintilio Varo, proconsole in Siria. La repressione da parte dei Romani fu feroce: la crocifissione di duemila rivoltosi (quanti chiodi?!) generò ulteriore odio verso i Romani da parte degli Ebrei.
Sedata solo temporaneamente la sommossa, nel 7 d.C. i Romani decisero di riorganizzare amministrativamente e fiscalmente la Giudea (che passò da regno tributario al rango di provincia imperiale), pianificando allo scopo un censimento per quella che per l’epoca era una delle imposte più importanti: il “testatico”. A supervisionare il censimento suddetto fu lo stesso governatore della Siria Publio Sulpicio Quirinio (quello confuso dall’Evangelista Luca), diretto superiore del praefectus romanus e degli stessi tetrarchi erodiani. Questa iniziativa fu la scintilla che accese la celebre “rivolta del censimento” nella quale trovò la morte lo stesso Giuda “il Galileo”.
Morale: è la Storia stessa, a smentire l’equazione che riguarda Giacomo il Giusto e ‘Paolo’. A Qumran in realtà si parlava d’altro.

Lo Gnosticismo fu l’altro “ostacolo” della Chiesa di Roma — ma lo sarebbe stato anche molti secoli dopo, con i Càtari — sulla via della formazione della nuova religio. E via via i testi gnostici furono messi al bando e bollati come apocrifi o eretici, fino a che non vennero più ricopiati.
Il termine “apocrifo” è normalmente usato per indicare le opere attribuite ad un determinato autore ma di cui si è raggiunta la certezza che tale attribuzione sia errata. Un testo apocrifo è quindi spesso un testo che viene attribuito ad un autore per un errore di antichi critici, o per una scorretta tradizione. In campo religioso il termine è invece generalmente riferito a quelle scritture religiose, o “testi sacri”, ritenute non canoniche, che cioè non rientrano, secondo l’interpretazione prevalente e/o ufficiale, nell’elenco dei libri sacri. L’argomento è vasto e per ogni confessione religiosa è possibile trovare testi che rientrino in questa definizione. La parola “apocrifo” viene dal greco apocrypha, “occulto, arcano”. Con la definizione del canone (termine che in greco significa “bastone”, “regolo per misurare”) della Bibbia ‘cristiana’, gli scritti esclusi vennero considerati non autentici; di qui iniziò l’uso di “apocrifo” con significato di falso. Il termine preciso per indicare questa categoria è “pseudoepigrafi”, cioè in greco “dal titolo falso”. In realtà anche alcuni libri canonici del Nuovo Testamento sono probabilmente pseudoepigrafi (come la Seconda Lettera di Pietro, scritta quasi certamente dopo la sua morte). Il termine apocrifo non ha quindi necessariamente un significato peggiorativo.
I quattro criteri della Chiesa ‘cristiana’ per considerare un testo canonico erano:
Origine Apostolica: attribuibile all’insegnamento o alla diretta scrittura degli Apostoli o dei loro più stretti compagni;
Consenso Universale: riconosciuto da tutte le più importanti Comunità ‘cristiane’ del periodo (iv Secolo d.C.);
Uso Liturgico: scritti redatti direttamente dall’insegnamento orale del Cristo e letti pubblicamente quando le “prime comunità cristiane” si riunivano settimanalmente;
Messaggio Consistente: testi che hanno contenuti teologici simili o complementari alle “scritture” già accettate.
Nessuna, fra opere gnostiche come il “Vangelo degli Ebioniti”, il “Vangelo di Filippo”, il “Vangelo di Maria”, il “Vangelo di Pietro”, il “Vangelo di Didimo Tommaso”, il “Vangelo dell’infanzia di Tommaso”, il “Libro segreto di Giacomo” o il “Vangelo di Giuda”, pur diffusissime, aveva le caratteristiche richieste dall’ortodossia ecclesiastica romana. I Vangeli Apocrifi in generale costituivano per i primi ‘cristiani’ una risposta all’ingenuo bisogno di conoscere del Salvatore più di quanto i Sinottici non dicano: ad esempio, il silenzio sulla fanciullezza del Salvatore è colmato dagli Apocrifi con il racconto di ogni sorta di miracoli, che però lo fanno apparire come un dio-bambino prepotente e vendicativo; soprattutto, in essi la figura di ‘Gesù’ appare molto legata alla inaccettabile tradizione ebraica di un “Unto del Signore” venuto a ricostruire l’antico regno di Davide e a purificare la società ebraica dalla corruzione e dalla connivenza con il “paganesimo romano”. Altra compromettente differenza era il rigetto, più o meno esplicito, degli insegnamenti di ‘Paolo’, considerato apostata della fede. Ma il vero problema fu un altro.
Lo Gnosticismo insiste sull’idea di una sorta di “insegnamento segreto” riservato da ‘Gesù’ solo a pochi dei suoi discepoli e impartito nel periodo tra la Risurrezione e l’Ascensione — periodo considerato dagli Gnostici ben più esteso dei canonici “quaranta” giorni —; la “dottrina salvifica” viene rivelata direttamente da Cristo alla ristretta cerchia degli iniziati, escludendo così la gerarchia della Chiesa. In più, essa deve giungere attraverso esperienze personali (appunto la gnosi) e non attraverso lo studio dei testi canonici: per gli Gnostici, il problema fondamentale della vita umana non è il peccato ma l’ignoranza, e la via migliore per risolverlo non è quella d’una fede — peraltro imposta da “detentori del sapere divino” — ma della conoscenza.
Gli Gnostici elaborarono una complicata cosmogonia al fine di spiegare l’origine del “mondo materiale”: un Dio unico e inconoscibile (l’Eone eterno e perfetto) ha emanato alcune “coppie” di entità divine minori che si generano le une dalle altre e si estendono all’infinito a formare tutte insieme il “Pleroma” (la pienezza del divino); l’ultima di esse, però, “Sophia”, per la brama di conoscere l’inconoscibile attira su di sé la punizione di Dio, che la scaccia dal Pleroma. Esiliata dalla sua patria celeste (come Eva), Sophia emana una serie di eoni inferiori (gli Arconti) tra i quali il “Demiurgo” (Yaldabaoth), indentificato con Yahweh, il “Dio vendicativo” dell’Antico Testamento. Questa potenza ignorante (del mondo superiore perfetto) è la responsabile della creazione del mondo materiale, del cosmo e dell’uomo. Tuttavia le potenze superiori, commosse dal pianto di pentimento di Sophia, le concedono di ascendere fino ai margini del “mondo della Luce”.
In questa complessa visione la realtà umana è vincolata all’imperfetto mondo materiale, ma in essa è imprigionata quell’anima (una “particella della Luce”, o Pneuma) che può essere in grado di sfuggire al giogo del Demiurgo. Va da sé che gli uomini non sono consci di possedere in nuce una scintilla divina, per cui viene inviato sulla Terra l’eone Cristo a “svelare agli iniziati” questa verità. Tuttavia l’eone Cristo non si “incarna” in ‘Gesù’: egli fa solo in modo che gli umani percepiscano la sua “illusoria realtà umana” come reale — da questi concetti partì poi il “Docetismo”, con il rifiuto della morte in croce e risurrezione del Cristo (nel senso di corpo materiale): «egli non muore crocifisso (è solo l’involucro di carne che lo fa) ma ritorna direttamente al suo mondo superiore» (spiegando così la frase sulla croce «Padre mio, perché mi hai abbandonato?»).
Negli Gnostici non c’è “risurrezione” — il concetto del ‘Cristianesimo’ di un cadavere che si rianima li fa anzi sorridere —. Perché dovrebbe esserci, quando tutta la questione della salvezza sta nella fuga dalla materia? Il ridestarsi di una salma riporta la persona dentro al mondo del falso Dio: l’opposto di ciò che il Cristo gnostico rivela! Chi arriva alla radicale conoscenza di sé raggiunge la radice della vita e non ha bisogno di risurrezione, poiché arriva alla vita eterna che possiede già in se stesso.
(In effetti, comunque, nessuno dei Sinottici addotti come testimonianza di ‘Gesù’ risorto parla esplicitamente di “risurrezione”, e in Marco i riferimenti sono addirittura dei “post-it™”... Il solo Giovanni [xxi,14] dice «risuscitato dai morti», ma il Quarto Evangelista è un habitué della risurrezione di salme, come si evince da quella di Làzzaro.)
Nella pratica quotidiana, ogni setta predicava una propria variante al credo gnostico, e quindi un proprio culto; alcune sette respingevano completamente i sacramenti, altre accettavano quali strumenti di conoscenza il Battesimo e l’Eucaristia ma li affiancavano ad altri riti che, per mezzo di inni e formule magiche, dovevano propiziare l’ascesa al regno spirituale del principio divino imprigionato nel corpo materiale. Da un punto di vista etico, la struttura dello Gnosticismo oscillava poi fra il rigore e il lassismo: se infatti la valutazione negativa della materia e del corpo spingeva alcuni gruppi ad astenersi anche dal matrimonio e dalla procreazione (l’attaccamento al corpo è il primo problema dell’esistenza umana, ed è facile restarvi attaccati per mezzo del piacere: bisogna dunque negargli ogni piacere), la convinzione che l’anima sia assolutamente estranea al mondo materiale portava altre correnti a giudicare in termini relativistici ogni atto connesso con il corpo, autorizzando orge e depravazioni varie.
Come ragioni con uno gnostico, cioè con una persona convinta di detenere la sapienza segreta che a te manca? Se gli dici che sbaglia, l’interlocutore gnostico fa spallucce e ti risponde che “non sai”...
Queste idee e questi atteggiamenti spianarono la strada ai dogmi ‘cristiani’ che si consolidarono nel corso di un’aspra battaglia durata oltre due secoli, alla fine della quale “il vincitore riscrisse la Storia” facendo scomparire le tracce dell’Essenismo e dello Gnosticismo — almeno fino alle scoperte di Nag Hammâdi e Qumran.

La battaglia per le “sacre scritture”

Il “Cristianesimo dei primordi”, iniziato con lo stesso ‘Gesù’, aveva già le sue sacre scritture: quelle ebraiche, specialmente la Legge mosaica dei primi cinque libri (“Pentateuco”, letteralmente “i cinque astucci”: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio) di ciò che la dottrina avrebbe poi definito “Antico Testamento”. Yeshua bar Yosef, da buon ebreo di Palestina, si presenta come un’autorità in tali Scritture, e infatti i suoi discepoli lo chiamano “grande rabbi” (maestro). Dopo la Crocifissione, i discepoli continuarono a riverirne gli insegnamenti e anzi, in virtù della stretta comunanza con il rabbi, ascrissero a se stessi un’autorità pari a quella di Mosé. Con il passare dei decenni e con la diffusione del messaggio del Cristo al di fuori del ristretto ambito giudaico, il numero dei testi che pretendevano di essere stati composti dagli Apostoli aumentò esponenzialmente; si moltiplicarono anche i “Vangeli”: i Quattro neotestamentari, pur di autori anonimi, ricevettero la designazione che si conosce (due hanno nomi di Apostoli, Matteo e Giovanni, uno ha il nome di un “compagno di Apostolo”, Marco amico di Pietro, uno ha il nome di un “compagno di discepolo post-mortem”, Luca amico di ‘Paolo’), ma anche altri vantavano il titolo di appartenere ad Apostoli sia accertati (“Filippo”, “Pietro”, due diversi di “Didimo Tommaso”, uno perfino del reietto “Giuda”) che presunti (“Maria Maddalena”).
La letteratura popolare avrebbe trovato tra questi testi alternativi le sue pagine migliori, specialmente nel Medioevo; l’arte figurativa (affreschi, sculture e vetrate di cattedrali), l’agiografia e la novellistica avrebbero attinto largamente a questi racconti (basti pensare al Graal e a Maria Maddalena), imitandone gli atteggiamenti e replicandone i motivi, in una sorta di “Cristianesimo sotterraneo” (traboccante di speranze, bisogni e candida forza creativa) attratto dal filo conduttore che lega queste varie correnti “eretiche”: l’umanità di ‘Gesù’ con tutte le passioni più nobili dell’uomo — lo sdegno per la prepotenza, l’intolleranza e la cupidigia, la pietà per i poveri e per i sofferenti, la capacità di commuoversi, il coraggio di affrontare a viso aperto i potenti, i sopraffattori, “Farisei” e “mercanti nel Tempio” —. Nella molteplicità di interpretazioni cui la sua vicenda dà vita (Figlio di Dio, Salvatore, capro espiatorio, predicatore, esempio di virtù, profeta, combattente per la libertà...) sta il segreto del fascino immortale di Yeshua bar Yosef/‘Gesù’: ogni “grande uomo” della Storia conta per gli altri nella misura in cui gli altri riescono ad attribuirgli una personalità che corrisponda a ciò che essi si aspettano da lui.
Tutti questi “vangeli” ed “apocalissi” ed “epistole” sostengono di rappresentare i veri insegnamenti di ‘Gesù’ e tutti erano riveriti come Sacre Scritture da un gruppo ‘cristiano’ o dall’altro (nel ii Secolo, in Palestina come in Siria, in Asia Minore, in Egitto, in Grecia e a Roma, ogni comunità aveva il proprio Vangelo, e Giustino nella sua “Apologia” attinge indifferentemente da parecchi di essi senza porsi problemi di “canonicità”): fu naturale perciò che, ad un certo punto di questo inarrestabile proliferare del nuovo messaggio di successo, la gente cominciasse a chiedersi chi diceva le cose giuste e chi quelle sbagliate. Era più o meno lo stesso fenomeno odierno della falsificazione di un marchio famoso: quale borsa di “Gucci” è vera e quale è invece una patacca?
A guardar bene, “Matteo”, “Marco”, “Luca” e “Giovanni” battono tutti gli altri sul terreno dello stile. La loro prosa è governata da una sobria misura; l’espressività è casta, non si sovrappone alla “verità” per sopraffarla; realtà sociale del tempo e “realtà misterica” si intrecciano con naturalezza, offrendo una trasparenza che avvicina al mistero e al contempo mantiene da esso la distanza necessaria affinché sia rispettato. Novità ed intensità del messaggio non inficiano l’arcana semplicità della parola. Nelle pagine degli Apocrifi invece si sente il fiato grosso dell’approssimazione e della forzatura, l’impazienza del voler meravigliare, l’amore forsennato e accecante per il bisogno di credere: la loro schematicità denuncia l’assenza della lunga elaborazione che arricchì (per non dire manipolò) i Quattro; inoltre una parte di essi — i cosiddetti “Vangeli giudeo-cristiani” —, per l’interpretazione del messaggio in chiave di rivendicazione sociale, era adatta alle piccole realtà palestinesi e siriane ma non al mondo greco-romano, più smaliziato e più sensibile al paganesimo.
E tuttavia gli stessi Quattro soffrirono non poco: a quasi due secoli dalla Crocifissione, Marco e Matteo erano accettati un po’ ovunque, ma su Luca si facevano molti distinguo e addirittura Giovanni incontrò una considerevole opposizione. I dibattiti furono intensi e talvolta violenti: ‘Gesù’ è un essere divino “generato” da Dio (come appare in Matteo e Luca), o è “adottato” da Dio al momento del battesimo (Apocrifi “giudeo-cristiani” e Marco), oppure ne è una “emanazione” (Gnosticismo e Giovanni), o ancora una “apparenza” presa da Dio per rivelarsi agli uomini (Docetismo)? E poi Maria, madre di ‘Gesù’, può essere considerata anche “madre di Dio”?
Nei primi tre secoli del ‘Cristianesimo’ — che, lo ricordo, sono il limite d’indagine di questo saggio — c’è una costante che è impossibile passare sotto silenzio: quando si esamina la questione della “Vergine Maria”, ci si ritrova davanti l’archetipo largamente diffuso di una divinità femminile con un “figlio salvatore” il quale, morto tragicamente, rinasce portando alla risurrezione l’intero genere umano. Si può quasi affermare che questa immagine della Dea Madre e del Dio Figlio appartengano di diritto all’inconscio collettivo, alla struttura mentale dei popoli. La nostalgia della divinità femminile, dell’adorazione della maternità, è così profondamente radicata nell’animo umano da risultare impossibile estirparla del tutto.
Il messaggio ‘cristiano’, di origine ebraica, transitò attraverso l’Ellenismo di Saulo di Tarso prima di inserirsi nella matrice romana; ma a differenza allo spirito filosofico dei Greci, i Romani interpretavano storicamente anche fatti che nulla avevano a che spartire con la Storia, con quella “concretezza” che era alla base del loro successo economico, giuridico, militare e politico. A Roma i miti risultavano incomprensibili, se non venivano resi “reali” attraverso un’arbitraria collocazione temporale: Orazio Coclite (“Guercio”) fu la trasposizione storica del mito germanico di Odino, il dio guercio, e Muzio Scevola rappresentò la versione storica del mito indoeuropeo di Tyrr “il Monco”, dio che aveva perso un braccio per salvare i propri adoratori. Quando la Chiesa ‘cristiana’ divenne a Roma un’istituzione forte, con una gerarchia e dei dogmi, il messaggio ‘cristiano’ diventò necessariamente una “pagina di Storia”, e l’incarnazione del “protagonista”, in un modo o nell’altro, andava spiegata storicamente. Da ciò derivò l’importanza data alla madre di ‘Gesù’, la quale non poteva essere una donna qualsiasi dacché aveva accolto l’incarnazione di Dio.
Il concetto di Theotokos, “madre di Dio”, nacque in ambito gnostico (e fu proprio a Efeso, città che era al contempo il cuore delle dottrine gnostiche e l’epicentro degli antichi culti della Dea Madre, che ne venne più tardi proclamato il dogma). Gli Gnostici elevarono lo Spirito delle scritture a elemento femminile (in ebraico era già tale) e Maria — che dallo Spirito Santo era stata fecondata — divenne la Sophia, la conoscenza, in breve la divinità che presiedeva la Gnosi. Una siffatta “trinità” — Dio Padre, ‘Gesù’ Figlio e Maria Madre —, logica da un punto di vista naturale, si scontrò però con la ginofobia dilagante degli ortodossi: la “nuova Ishtar” venne retrocessa a “donna più pura” per evirare la nascente Trinità d’ogni elemento sessuale, e il suo posto fu preso proprio dallo Spirito Santo.
Il “culto della Vergine” conobbe uno sviluppo straordinario: si istituirono feste — l’Annunciazione, la Purificazione, la Dormizione, l’Assunzione, la Natività di Maria... — e si produsse letteratura intesa alla glorificazione mariana. Prendendo spunto dal primo capitolo di Luca e lavorando di fantasia, molti autori “apocrifi” svilupparono i temi dell’annunciazione, del fidanzamento fra Maria e Giuseppe, del viaggio a Bethlemme, della visita ad Elisabetta, su su fino alla nascita e infanzia, con intento sia apologetico che di esortazione alla castità, all’umiltà e alla carità, intento che la futura Chiesa vide tacitamente di buon occhio anche per le conferme offerte alla “senilità” di Giuseppe (“Protovangelo di Giacomo”) e all’assenza di veri fratelli di ‘Gesù’, oltre che per altre piccole “funzioni accessorie” (il nome dei tre Magi, l’invenzione del Presepe).
Uno dei gruppi concorrenti della “cristianità”, quello che nel frattempo si era installato nel cuore dell’Impero (l’urbe di Roma), riuscì a soverchiare tutti gli altri facendo più convertiti dei suoi oppositori; questa corrente vincente stabilì la struttura organizzativa della Chiesa ‘cristiana’, decise quali credo dovessero recitare i fedeli ‘cristiani’ e determinò quali Rolex fossero originali e quali patacche. Era il gruppo di Ireneo, Origene, Giustino, Tertulliano: ottenuto il sigillo della vittoria, tale gruppo divenne “ortodosso” (letteralmente “di retta fede”) e riscrisse i fatti storici sostenendo di aver sempre rappresentato l’opinione maggioritaria del ‘Cristianesimo’, l’unica ad affondare le proprie radici nell’eredità apostolica.
Questa preoccupazione dell’aver ragione era caratteristica solo del ‘Cristianesimo’ (ma sarebbe diventata poi ancor più forte nell’Islam): l’Impero di Roma era popolato di culti d’ogni tipo — familiari, statali, cittadini — e le genti adoravano innumerevoli dèi in molti modi; la cosa era ben lungi dall’essere sentita come un problema, anzi la molteplicità generava rispetto, e la pluralità tolleranza. In seno ad una stessa confessione si potevano adorare ad esempio Giove e Venere, e al contempo dèi minori delle coltivazioni, del parto o del focolare domestico. Nessuno, tranne gli Ebrei, pensava che, se era nel giusto a venerare i suoi dèi come doveva, allora gli altri avevano torto ad adorare i propri come dovevano. Inoltre nessuna di tali religioni (anche qui con l’eccezione dell’Ebraismo) imponeva di accettare dottrine precise riguardo ad una divinità: non c’erano dogmi stabiliti per proclamare la “vera natura di un dio”, e non c’erano “credenze giuste” (ortodosse) o “sbagliate” (eretiche), ciò che contava erano tutt’al più i riti ed i precetti sanciti dalle tradizioni. Poi vennero i ‘cristiani’, per i quali ‘Gesù’ era “l’unica fonte di salvezza”, e questa esclusività riposizionò verso l’errore tutte le altre confessioni.
Se non si fosse affermata la forma che uscì vincitrice, il ‘Cristianesimo’ non sarebbe diventato il fulcro dell’Impero Romano, e quindi non sarebbe mai divenuto il culto dominante del Medioevo; non ci sarebbero stati il Rinascimento né la Riforma, e sicuramente l’Occidente non sarebbe la “civiltà di successo” che è oggi. E forse è bene, che il gruppo vincitore sia stato quello ortodosso: se avesse vinto una “élite spirituale” come lo Gnosticismo, che tipo di programma sociale sarebbe stato proposto da chi non dava alcun valore al futuro della stessa società? Che risposte sarebbero state date di fronte a povertà, ingiustizia, malattia, se “la carne va fuggita” (anziché “tollerata”)?
Come tutte le religioni “scritturali”, il ‘Cristianesimo’ ha i suoi guardiani. Il che comporta un prezzo da pagare: se l’unica via che abbiamo per accedere alla fede è una tradizione che a sua volta ha bisogno di interpreti, lo scontro tra i vari guardiani è ineludibile.
La battaglia però non fu semplice, né breve.