(...) A sua volta, la comprensione-accettazione dell’Essenismo non può essere disgiunta da quella dello Gnosticismo — ebraico ma soprattutto ‘cristiano’ —, che con i suoi innumerevoli “movimenti” e sette caratterizzò profondamente i primi secoli della nascente religio e che dalle dottrine essene trasse in parte la sua origine ed elaborazione teogonica.
Le concezioni gnostiche erano figlie dirette dell’Orfismo, culto “misterico” che proclamava l’immortalità dell’anima e concepiva l’essere umano nel dualismo anima-corpo. Secondo l’Orfismo, nell’uomo alberga un principio divino, un daimon caduto in un corpo per una “colpa” originaria; questo dèmone-anima non solo preesiste al corpo ma non muore con esso, e anzi è destinato a reincarnarsi in corpi successivi — kyklos te geneseos, “ciclo delle nascite” — per espiare quella prima colpa. L’Orphicos bios, la “vita orfica”, con i suoi riti e le sue pratiche (igiene personale, rinuncia ai vestiti di lana, sobrietà nel consumo di carne, uova e fagioli) che dovevano durare per tutta la vita, era per gli iniziati la sola in grado di porre fine al ciclo delle reincarnazioni — Metempsicosi — e di liberare l’anima dal corpo, con un premio nell’aldilà per i “purificati”. L’espressione soma sema, “il corpo, una tomba”, coniata da Platone nel “Cratilo” (v Secolo a.C.), era emblematica della concezione orfica secondo la quale l’anima si trova nel corpo come in una tomba.
Il nucleo centrale della dottrina si deduce da laminette dorate — i cosiddetti “passaporti dei defunti”, risalenti ad un periodo fra il iv Secolo a.C. ed il ii Secolo d.C. — trovate nei sepolcri dei seguaci dell’Orfismo, a Creta, in Tessaglia e nell’Italia meridionale: «Rallègrati, tu che hai patito la passione: questo prima non l’avevi ancora patito. Da uomo sei nato Dio», «Felice e beatissimo, sarai Dio anziché mortale», «Da uomo nascerai Dio perché dal divino derivi». In sostanza, il destino ultimo dell’uomo è “tornare ad essere presso gli dèi”: liberare quanto di dionisiaco gli è proprio — divino, celeste, buono — da tutto ciò che è titanico — terreno, malvagio —. Esattamente come per gli “iniziati” (cioè “coloro che hanno compreso la scintilla divina dentro di sé”) dello Gnosticismo.
Con il mito di Orfeo si incrinò l’ultima visione naturalistica che ancora sopravviveva nelle religioni antiche, quella della spiritualità greca: nella lotta dualistica fra anima e corpo dell’Orfismo, anche in Grecia si affermò la convinzione che alcune tendenze legate al corpo erano da reprimere, e nel sempre più diffuso mito dionisiaco-orfico la purificazione dell’elemento divino da quello corporeo divenne lo scopo dell’esistenza, in un’etica colpa-castigo-espiazione-ricompensa che era ormai patrimonio spirituale comune in tutto il bacino del Mediterraneo.
La maggioranza degli autori biblici ritiene che il male nel mondo sia frutto di un peccato umano “corruttore della buona creazione di Dio”; la maggior parte degli autori gnostici sostiene invece che il male è inciso nella materia stessa del mondo.
Come si arrivò a questo rovesciamento di prospettiva?
La parte più importante della teologia ebraica risale alle tradizioni sull’Esodo: Dio ode il lamento dei figli di Israele, schiavi da secoli, e fa sorgere un profeta, Mosé, che li libera con l’appoggio di Dio stesso (le Piaghe d’Egitto, l’apertura del Mar Rosso, etc.); tempo dopo, però, il popolo “eletto” si trova nella sofferenza e Dio stavolta non interviene. I teologi giudaici tentarono di farsene una ragione: i vari Isaia, Geremia, Osea spiegano che Israele patisce crisi sociali, politiche e militari perché il popolo pecca contro Dio, che lo punisce con “problemi e silenzio”. Succede però che il popolo, pur rimettendosi a seguire strenuamente e ossequiosamente la Legge mosaica — data da Dio —, continua a soffrire: i malvagi prosperano ed i giusti subiscono. E i Grandi Profeti non riescono a chiarirne il perché. Tale difetto portò alla nascita di diverse teologie che andarono in un’altra direzione rispetto ai profeti: Giobbe e l’Ecclesiaste, ma soprattutto gli “apocalittici” — pensatori che sostengono una rivelazione (apokalypsis) diretta di Dio sui motivi di tanto patire.
L’Apocalittica ebraica sorse in un contesto di grande sofferenza due secoli prima di Yeshua; alcuni filosofi, influenzati da concezioni iraniche, conclusero nei loro testi che tanto male non potesse provenire da Dio bensì da un suo avversario, il Diavolo: e invitarono a “resistere un po’ più a lungo perché Dio arriverà presto, con uno sfoggio di potenza cataclismica, a instaurare il bene duraturo”.
Yeshua bar Yosef stesso fu uno di questi apocalittici:
«In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza». (Marco [ix,1])
«In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute». (Marco [xiii,30])
Alla morte di ‘Gesù’, i suoi seguaci credono che tornerà lui stesso a instaurare il Regno, la “vendetta di Dio” sul Male.
Ecco io vi annunzio un mistero: non tutti, certo, moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba; suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati. (i Lettera ai Corinzi [xv,51-52])
Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore. (i Lettera ai Tessalonicesi [iv,15-17])
Ma i decenni passavano, e ‘Gesù’ non tornava. Così, dopo due traumi — prima fallì la spiegazione profetica sul fatto che fosse “Dio a provocare la sofferenza”, poi fu smentito l’ideale apocalittico sul fatto che fosse “il nemico di Dio a provocare la sofferenza” —, l’impianto del ragionamento si incrinò: forse il mondo non è stato creato così male da Dio, forse c’è un “Dio inferiore”, un ignorante e malvagio sotto-Dio, la “creazione” dev’essere la sua, il Dio “supremo” non avrebbe fatto un mondo tanto difettoso.
Con buona pace della logica, che ci informa che questo sotto-Dio, come tutte le altre cose, dev’essere anch’esso opera del “Dio superiore” — e quindi non se ne esce: è sempre colpa del “Dio superiore”! —, lo Gnosticismo affinò l’idea di Dio buono al di sopra e Dio ignorante al di sotto, che già circolava in Mesopotamia, e si diffuse come una specie di apocalitticismo fallito nel quale anche la Cristologia ebbe una sua funzione ben precisa.
Lo Gnosticismo, dunque, non fu altro che il frutto della “ennesima delusione” su Dio.
Messaggi in bottiglia dentro mari di sabbia
La conoscenza dello Gnosticismo e dei suoi testi è rimasta per lunghi secoli legata alle citazioni e ai commenti, molto spesso ostili, delle opere della Patristica cristiana . L’assoluta mancanza di documenti, che non fossero frammenti riportati in altre opere, spesso anche alterati, ha reso in genere difficile la collocazione e la comprensione dello Gnosticismo; tuttavia la scoperta, avvenuta nel 1945 presso il villaggio di Nag Hammâdi (alto Egitto), di una “biblioteca” di testi gnostici — 53 scritti su papiro, in lingua copta —, completata dalla scoperta e dal restauro, ad inizio xxi Secolo, di un ulteriore testo gnostico — il “Vangelo di Giuda” —, ha dato un nuovo insperato impulso agli studi.
Con ritrovamento casuale della stessa natura — come “messaggi in bottiglia dentro mari di sabbia” affidati al trascorrere dei millenni — i “Manoscritti del Mar Morto” o “Rotoli di Qumran” intervennero quasi contemporaneamente, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, dopo varie vicissitudini, ad illuminare gli studiosi sulle comunità essene coeve a ‘Gesù’. Prima di questi ritrovamenti si conoscevano solo alcune citazioni da parte di scrittori antichi — Ippolito Romano, Plinio il Vecchio, Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio —; nel 1947, in una zona desertica a 30 km da Gerusalemme, grazie ad una scoperta fortuita da parte di un pastorello, vennero rinvenute delle giare contenenti dei rotoli di pelle avvolti in brandelli di tela. Il materiale in larga parte fu rivenduto ad un trafficante che a sua volta lo rivendette al governo israeliano. Negli anni seguenti furono rinvenuti, in undici grotte della zona, circa 900 rotoli, alcuni dei quali ridotti in frammenti; ben 200 di essi riguardano libri o parti di libri dell’Antico Testamento; vennero ritrovati anche i rotoli con le “regole della comunità”. Un team internazionale di studiosi — presieduto da padre De Vaux, un domenicano residente in Giordania imposto dalla Chiesa di Roma che temeva “sorprese” da tale ritrovamento archeologico — iniziò a studiare i reperti sin dalla metà degli anni Cinquanta del xx Secolo, fra vicissitudini anche geopolitiche — il territorio passò attraverso le amministrazioni britannica, giordana e israeliana, più le varie guerre israelo-palestinesi — e polemiche; ci vollero più di 40 mosaici anni prima che tutto il materiale fosse messo a disposizione dell’intera comunità scientifica mondiale.
I “codici” di Nag Hammâdi, ritrovati in una giara a 5 km da un monastero cenobita pacomiano, rimasero nascosti per lungo tempo dopo il ritrovamento e in seguito ad una complessa vicenda, dopo essere stati dispersi, furono recuperati e messi a disposizione degli studiosi. I testi contenuti nei codici sono per lo più scritti gnostici, ma includono anche tre opere appartenenti al “Corpus Hermeticum” ed una parziale traduzione della “Repubblica” di Platone. Gli scritti “ermetici” vanno considerati a parte poiché si allontanano decisamente dalle teorie gnostiche largamente diffuse nel resto della “biblioteca”; il loro interesse risiede soprattutto nella marcata ispirazione egizia rispetto ai testi greci e latini del tempo: la religione egiziana non viene rifiutata, piuttosto l’intento è di “spiritualizzarla” — l’Ermetismo non è tanto un sistema religioso quanto una “via” —. Complementari ed esaurienti, espongono l’insieme del percorso iniziatico che conduce alla “illuminazione divina” affermando l’importanza sostanziale del simbolismo, se non addirittura dell’allegoria.
È probabile che i “codici” di Nag Hammâdi appartenessero alla biblioteca di un monastero della zona, e che i monaci li abbiano nascosti per salvarli dalla distruzione quando si cominciò a considerare lo Gnosticismo “eresia”. Non se ne conoscono gli autori, né le circostanze e i luoghi di redazione; sono scritti in copto, benché pare certo che in gran parte siano traduzioni dal greco. L’opera più importante è il “Vangelo di Tommaso”, del quale quello di Nag Hammâdi è l’unico testo completo noto. Grazie al ritrovamento, gli studiosi compararono la presenza di frammenti degli stessi testi nei “frammenti di Ossirinco”, scoperti nel 1898, e furono in grado di collegarli alle citazioni dei “Padri della Chiesa”. La datazione con il radiocarbonio dei manoscritti li fa risalire al iii e iv Secolo d.C. (e in ogni caso i dorsi delle rilegature furono rinforzati con carta straccia composta da ricevute datate al 341, al 346 e al 348), mentre per i testi greci originali è generalmente accettata una datazione fra il 120 e il 200 d.C.: non molto distante dai Vangeli canonici.
I contenuti delineano rivelazioni esoteriche su un “Cristianesimo periferico”, lontano dai centri di discussione teologica. Oltre all’importanza dei manoscritti nell’ambito della storia del libro — si tratta dei più antichi libri ancora esistenti — e della paleografia copta, rappresentano una testimonianza di fondamentale interesse per la storia della filosofia e del ‘Cristianesimo’ primitivo perché propongono interpretazioni e rituali ‘cristiani’ diversi da quelli “ufficializzati” a Nicea nel 325 — e per questo motivo immediatamente ricusati come eretici, quindi raccolti, protetti e nascosti dalle comunità “devianti” —. Gli “gnostici” avevano con i testi sacri un rapporto molto diverso rispetto ai “cristiani ortodossi”: erano particolarmente interessati al senso esoterico delle Scritture, non alla loro storicità; consideravano le cose divine come una conoscenza interiore e segreta, trasmessa attraverso la tradizione e/o l’iniziazione. Come apprendere la sapienza segreta che serve per salvarsi? Non certo guardandosi intorno per farsi un’idea personale del mondo, poiché “il mondo è opera di una divinità inferiore, il Dio cattivo Elohim/Yahweh dell’Antico Testamento”, colui che ha creato le calamità, le carestie, gli affanni, i terremoti, gli uragani, la siccità, le epidemie...; la rivelazione non può che provenire dall’alto, da un emissario del vero Dio: quindi Gesù Cristo.
I “Vangeli gnostici” scoperti a Nag Hammâdi sono meditazioni su ‘Gesù’ e sul modo di intendere il suo messaggio, presuppongono nel lettore una conoscenza del kerygma (l’annunzio ‘cristiano’) e della didaché (i primi approfondimenti dell’annunzio); i loro autori conoscevano la “tradizione sinottica”, anche se probabilmente non nella forma canonica nota oggi. Sono cioè testi di uno Gnosticismo ‘cristiano’, e sono frequentemente d’uno spessore spirituale toccante:
Gesù dissimulò segretamente ogni cosa. Egli infatti non si manifestò quale era realmente ma come lo si poteva vedere: grande ai grandi, piccolo ai piccoli, angelo agli angeli, uomo agli uomini. Perciò il suo Logos si è nascosto a tutti. [...] La verità non è venuta nuda in questo mondo, ma in simboli e in immagini: non la si può afferrare in altro modo. [...] Colui che è incapace di ricevere, a maggior ragione è incapace di dare. La fede riceve, l’amore dà. Nessuno può ricevere senza la fede, nessuno può dare senza l’amore. Per questo appunto crediamo, per ricevere veramente: e così possiamo amare e dare. (“Vangelo di Filippo”)
Ciò che colpisce — e li rende nettamente diversi dai Vangeli ufficiali — è l’atmosfera intellettualista: affrontano chi legge in prima persona e lo mettono di fronte non a racconti bensì a ragionamenti. Non tengono d’occhio l’Antico Testamento tentando di asservirne le tesi per giustificare l’avvento di ‘Gesù’, come avviene artificiosamente nei Quattro Vangeli.
Gesù disse: «Se coloro che vi guidano vi dicono: Ecco il Regno (di Dio) è in cielo! Allora gli uccelli del cielo vi precederanno. Se vi dicono: è nel mare! Allora i pesci del mare vi precederanno. Il Regno è invece dentro di voi e fuori di voi. Quando vi conoscerete, allora sarete conosciuti e saprete che voi siete i figli del Padre che vive. Ma se non vi conoscerete, allora dimorerete nella povertà, e sarete la povertà». (“Vangelo di Tommaso”, loghion 3]
I discepoli gli domandarono: «In quale giorno verrà il Regno?». [Gesù rispose:] «Non verrà mentre lo si aspetta. Non diranno: “Ecco, è qui!”. Oppure: “Ecco, è là!”. Bensì il Regno del Padre è diffuso su tutta la terra, e gli uomini non lo vedono». (“Vangelo di Tommaso”, loghion 113]
Come restare indifferenti di fronte a parole simili, tracce di un messaggio perduto di Yeshua («Il Regno è dentro di voi», «Quando vi conoscerete, allora sarete conosciuti», «il Regno è dappertutto ma gli uomini non lo vedono»)? Il bellissimo senso del loghion 113 viene smarrito nei Vangeli ortodossi, frainteso alla luce della teologia paolina:
«Allora se qualcuno vi dirà: Ecco, il Cristo è qui, o: È là, non ci credete. Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli, così da indurre in errore, se possibile, anche gli eletti». (Matteo [xxiv,23-24])
La conoscenza va cercata, e quando si capisce che tutto ciò che si credeva di sapere su questo mondo è errato, ci si turba: ma proprio allora si capisce la verità, e ci si meraviglia, e quando ciò accade, finalmente si torna al regno divino da cui si è giunti e si regna con gli altri esseri divini su tutto ciò che esiste. Nel mondo materiale non c’è vita, la vita è un fatto dello spirito: una volta che si capisce che cosa è davvero il mondo (morte), gli si è superiori e ci si innalza al di sopra.
Il Vangelo di Tommaso, o “Quinto Vangelo”.
“San” Tommaso è uno dei 12 Apostoli, nonché uno dei più popolari tra essi grazie al suo soprannome, “Didimo”, gemello: il “gemello spirituale” di ‘Gesù’, cui perciò è consentito l’accesso ad “insegnamenti segreti”. Evangelizzatore delle Indie, rifiuta di credere alla Risurrezione prima di avere posato le mani sulle piaghe del maestro.
Presentato sotto forma di un dialogo tra ‘Gesù’ e Tommaso (ma interviene anche una “Maria” che sta con gli Apostoli), il “Quinto Vangelo” è composto da più di cento loghia — che in greco significa “parole”: frasi attribuite a ‘Gesù’ e riportate in terza persona («Gesù disse: ...») — che richiamano (in ben 79 casi) passi dei quattro del Nuovo Testamento, differenziandosene però in maniera significativa verso una concezione gnostica. Il manoscritto di Nag Hammâdi risale a circa il 350 d.C., ma è la traduzione di un originale risalente forse al ii Secolo d.C. (qualcuno sostiene una redazione in lingua siriaca compresa fra il 90 ed il 120 d.C.: contemporanea al Vangelo di Giovanni); gli esperti divergono tuttora sulla sua interpretazione: alcuni ritengono che risalga alle origini di ‘Gesù’, altri addirittura lo considerano la fatidica “fonte Q” di Matteo e Luca — che conterrebbe solo “detti” e non una vera e propria narrazione: convinzione ricavata da una frase di Papias (citata da Eusebio nella “Historia Ecclesiastica”) il quale, parlando delle circostanze in cui Marco scrisse il suo Vangelo, prosegue con «Matteo raccolse le loghia [di ‘Gesù’] in lingua ebraica, e ognuno le interpretò secondo la sua capacità» —, sebbene i punti di convergenza siano obiettivamente inferiori alle divergenze.
Dopo una breve introduzione, il “Vangelo di Didimo Tommaso” si rivela subito come uno scritto esoterico: parole di ‘Gesù’ da non svelare ai profani perché la loro comprensione non è alla portata di tutti ed è apportatrice di vita. Un atteggiamento inconfondibilmente gnostico. Ma nonostante l’autore manifesti più o meno velatamente le sue simpatie dottrinali, egli accoglie e tramanda nozioni di venerabile antichità (molte presenti nei Vangeli canonici, come il “chicco di senapa”, il “nemo propheta in patria”, le “perle ai porci”, il “beati i poveri”, la “zizzania”) che forse possiede già in fonti scritte: una sorgente parallela alla “fonte Q”, che permette di attingere una forma della tradizione evangelica anteriore a quella dei Sinottici, più vicina a quella originale orale? Illuminante il confronto dei seguenti concetti:
Gesù disse: «Vi darò ciò che occhio non vide, ciò che orecchio non udì, ciò che mano non toccò, e ciò che non entrò mai in cuore d’uomo». (loghion 17)
Sta scritto infatti: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano». (i Lettera ai Corinzi [ii,9])
E ancora:
Gesù disse: «I farisei e gli scribi hanno preso le chiavi della conoscenza e le hanno nascoste. Essi non sono entrati e non hanno lasciato entrare quelli che lo volevano. Voi, però, siate prudenti come serpenti e semplici come colombe». (loghion 39]
«Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci». (Matteo [xxiii,13])
«Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe». (Matteo [x,16])
E di più:
Gesù disse: «Da Adamo a Giovanni Battista nessun nato da donna fu più grande di Giovanni Battista, sì che (davanti a lui) egli debba abbassare gli occhi. Tuttavia vi dissi: Tra di voi chiunque sarà piccolo conoscerà il Regno e sarà più grande di Giovanni». (loghion 46)
«In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui». (Matteo xi,11])
Le “chiavi del Regno” usate dai Sinottici divengono “gnosi” nel Vangelo di Tommaso: la gnosi è conoscenza di se stessi e il “Regno” è da ricercare nell’intimo di ogni persona, che è sostanzialmente di origine divina. È una gnosi associata all’identificazione del conoscente con il conosciuto, cioè con Dio. E dunque rispunta: “Dio” uguale “D’io”.
Il legame fra Essenismo e Gnosticismo traspare dal loghion 74:
Egli disse: «Signore, molti sono presso il pozzo, ma nessuno è nel pozzo».
Espressione tramandata pari pari anche da Celso, attaccato da Origene: il “pozzo”, però, tra gli Esseni era simbolo riconosciuto di saggezza e di abbondanza guadagnata con l’operosità.
Un loghion divenuto famoso in tempi recenti è il 121:
Simon Pietro disse loro: «Maria ci lasci, perché le donne non sono degne della vita». Gesù disse: «Io stesso la condurrò per renderla uomo, cosicché anche lei possa diventare uno spirito vivente simile a voi uomini. Poiché ogni donna che si rende uomo entrerà nel regno dei cieli».
Dopo la pubblicazione del “Quinto Vangelo”, le polemiche femministe sono state — giustamente — roventi, ma fuori luogo. È praticamente impossibile capire il significato del brano senza tener presente che nel mondo antico le relazioni tra i sessi erano viste in modo diverso da come sono oggi: il maschio e la femmina non erano considerati due tipi di essere umano, ma due gradi. Come si sa da medici, poeti, filosofi e altri autori del mondo greco e romano antico, la donna era ritenuta un uomo imperfetto, che cioè “non si è sviluppato” — lasciando nell’utero, per qualche strano fenomeno, il pene e i peli e i muscoli maschili —; si credeva che il cosmo intero operasse lungo un continuum di perfezionamento: le cose inanimate erano “meno perfette” di quelle animate, le piante “meno perfette” degli animali, gli animali “meno perfetti” degli esseri umani, le donne “meno perfette” degli uomini, gli uomini “meno perfetti” degli dèi... Le conseguenze nel pensiero filosofico e religioso dell’epoca sono chiare: perché una donna si “perfezionasse” doveva prima passare allo stadio successivo, cioè farsi uomo. La gnosis offerta da ‘Gesù’ alle donne era questa.
Va da sé che un simile Vangelo, senza “buona novella” e con tante affermazioni “compromettenti”, non aveva caratteristiche tali da poter rientrare nella canonicità vincitrice: probabilmente “il suo problema” fu d’esser finito, nella forma originale (la “fonte Q”?), in mano gnostica, e quindi manipolato ideologicamente (così come i Quattro Vangeli sono “finiti” in mani proto-ortodosse, e da esse “aggiustati”).
I Vangeli di Filippo, Maria, Giuda
Nello stesso volume della biblioteca di Nag Hammâdi che contiene il Vangelo di Tommaso — anzi, proprio in continuazione ad esso — si trova il “Vangelo di Filippo”.
Il manoscritto, in copto, conosciuto già ai tempi di Epifanio ma scarsamente menzionato dai Padri della Chiesa, ha una datazione approssimativa che lo colloca intorno all’anno 330 d.C., ma l’originale in greco risale al 120-160 d.C.; i suoi legami con la letteratura evangelica canonica sono ancora più effimeri che nel Vangelo di Tommaso, ed è da ascrivere al gruppo dei “valentiniani”. Molte sue espressioni ricordano versetti neotestamentari (in particolare Giovanni e le Lettere di ‘Paolo’, ma in un contesto e con accezioni ben diverse), e questo fa pensare alla solita fonte comune da cui tutti sembrano aver ricavato le sentenze, sebbene piegandole ai propri “interessi”.
Un suo tema esclusivo è quello dei “misteri”, o sacramenti (5 in tutto), e in particolar modo lo hieros gamos, o “camera nuziale”: che non si riferisce ad un atto sessuale bensì ad un’unione spirituale fra l’essere umano ed il proprio “angelo-immagine” che conduce alla “risurrezione”; una rinascita che avviene già in vita e non dopo la morte (ecco altre tracce d’un messaggio travisato di Yeshua). Nel “mistero” dell’eucaristia si parla di “pane e calice” e non di “pane e vino”.
Alcuni passi sono illuminanti, ed hanno infuocato la nota polemica su Maria Maddalena “sposa” di ‘Gesù’:
17. Taluni hanno detto che Maria ha concepito dallo Spirito Santo. Essi sono in errore. Essi non sanno quello che dicono. Quando mai una donna ha concepito da una donna? [in ebraico all’espressione “spirito” corrisponde il termine Ruah, che è femminile.] Maria è la Vergine che nessuna forza ha violato, e questo è un grande anatema per gli ebrei che sono gli apostoli e gli apostolici. [...] E il Signore non avrebbe detto «mio Padre che è nei Cieli», se non avesse avuto un altro padre, ma avrebbe detto semplicemente «mio padre».
21. Coloro che dicono che il Signore prima è morto e poi è risuscitato, si sbagliano, perché egli prima è risuscitato e poi è morto. Se uno non consegue prima la risurrezione non morirà, perché, come è vero che Dio vive, egli sarà già morto.
32. Erano tre che andavano sempre con il Signore: sua madre Maria, sua sorella, e la Maddalena, che è detta sua compagna. Infatti era [erano?] ‘Maria’ sua sorella, sua madre e la sua compagna.
47. Gli apostoli che sono stati prima di noi l’hanno chiamato così: Gesù Nazareno Cristo. L’ultimo nome è Cristo, il primo è Gesù, quello di mezzo è Nazareno. Messia ha due significati: tanto Cristo che il Limitato. Gesù in ebraico è la salvezza. Nazara è la verità. Perciò Nazareno è quello della verità. Cristo è il limitato. Nazareno e Gesù sono quelli che lo hanno limitato.
55. La Sofia, che è chiamata sterile, è la madre degli angeli. La compagna di [Cristo è Maria] Maddalena. [Il Signore amava Maria] più di tutti i discepoli e la baciava spesso sulla [illeggibile]. Gli altri discepoli allora gli dissero: «perché ami lei più di tutti noi?». Il Salvatore rispose e disse loro: «com’è ch’io non vi amo quanto lei?». [I passi fra le parentesi quadre sono fori nel papiro, ndr]
63. [...] Mentre siamo in questo mondo, è necessario per noi acquistare la risurrezione, cosicché, quando ci spogliamo della carne, possiamo essere trovati nella Quiete [...]
90. Coloro che dicono che prima si muore e poi si risorge, si sbagliano. Se non si riceve prima la risurrezione, mentre si è vivi, quando si muore non si riceverà nulla. Così pure si parla riguardo al battesimo, dicendo che il battesimo è una gran cosa, perché se si riceve si vivrà.
Il “Vangelo di Maria” è un testo noto da due fonti. La prima, il cosiddetto “Papyrus Berolinensis 8502”, è conservato dal 1896 presso il dipartimento di egittologia del museo di Berlino e sembra certa la sua provenienza da Achmin, in Egitto; un secondo frammento greco, noto come “Papiro Rylands III n.463”, proviene dalla raccolta di Ossirinco, in Egitto — sempre da “mari di sabbia”... — e viene datato iii Secolo d.C.. Alcuni dei primi Padri della Chiesa fanno esplicito riferimento nei loro scritti a questo “Vangelo”, disprezzandolo e rifiutandolo duramente.
Il personaggio del titolo (i titoli, per inciso, non aprono ma chiudono tutte queste opere) è Maria Maddalena, cui il testo attribuisce molto rilievo — al punto da lasciare intendere che ‘Gesù’ la anteponga ai suoi stessi Apostoli —. Lo scritto, incompleto per più della metà, si compone di due parti: nella prima ‘Gesù’ risorto risponde alle domande degli Apostoli e affida loro la missione della predicazione del Vangelo, mentre la seconda si apre con l’intervento di Pietro affinché Maria Maddalena riveli le parole dette a lei da ‘Gesù’. Successivamente al racconto di Maria, Andrea e Pietro manifestano la loro incredulità riguardo al fatto che il Salvatore possa aver rivelato ad una donna ciò che non ha rivelato ai suoi discepoli. Infine Levi, biasimando i due uomini, li esorta a seguire gli insegnamenti che il Cristo ha loro impartito.
Ma essi rimasero tristi e piangevano forte. Dissero: «Come possiamo andare dai Gentili e predicare loro il vangelo del regno del figlio dell’uomo? Là non è mai stato dispensato, dobbiamo dispensarlo (proprio) noi?». / E Maria Maddalena: «Non piangete, fratelli, non siate malinconici, e neppure indecisi. La sua grazia sarà con voi tutti e vi proteggerà. Lodiamo piuttosto la sua grandezza, avendoci egli preparati e mandati agli uomini».
Quindi la Maddalena racconta, su insitenza di Pietro, di aver avuto una visione del Salvatore, e ne espone il colloquio intrattenuto — infarcito di idee gnostiche —. Le sue parole non vengono credute:
Ma Andrea replicò e disse ai fratelli: «Che cosa pensate di quanto lei ha detto? Io, almeno, non credo che il Salvatore abbia detto questo. Queste dottrine, infatti, sono sicuramente delle opinioni diverse». / Riguardo a queste stesse cose, anche Pietro replicò interrogandoli a proposito del Salvatore: «Ha forse egli parlato in segreto a una donna prima che a noi e non invece apertamente? Ci dobbiamo ricredere tutti e ascoltare lei? Forse egli l’ha anteposta a noi?». / Maria allora pianse e disse a Pietro: «Pietro, fratello mio, che credi dunque? Credi tu ch’io l’abbia inventato in cuor mio o che io mentisca a proposito del Salvatore?». / Levi replicò a Pietro dicendo: «Tu sei sempre irruento, Pietro! Ora io vedo che ti scagli contro la donna come fanno gli avversari. Se il Salvatore l’ha resa degna, chi sei tu che la respingi? Non v’è dubbio che il Salvatore la conosca bene, perciò amò lei più di noi. Dobbiamo piuttosto vergognarci, rivestirci dell’uomo perfetto, formarci come egli ci ha ordinato, e annunziare il vangelo senza emanare né un ulteriore comandamento, né un’ulteriore legge, all’infuori di quanto ci disse il Salvatore». / Quando Levi ebbe detto ciò, essi cominciarono a partire per annunziare e predicare. / Il vangelo secondo Maria.
Il confronto di Maria con Pietro è uno scenario trovato anche nel Vangelo di Tommaso, nella Pistis Sophia e nel Vangelo degli Egiziani, e riflette alcune delle tensioni nella Cristianità del ii Secolo. Pietro e Andrea rappresentano posizioni “ortodosse” che negano la validità della rivelazione esoterica, rigettando l’autorità delle donne a insegnare: in particolare è Kepha ad essere sempre rappresentato come quello che ha in particolar odio il genere femminile. In questo testo precipuo, nell’ottica gnostica la Maddalena è scelta probabilmente perché rappresenta la nullità del mondo («il mondo ebbe origine da una trasgressione» recita il “Vangelo di Filippo”) e l’esilio dell’anima.
Il “Vangelo di Giuda” è un manoscritto redatto su papiro e legato da un laccio di pelle, probabilmente copiato in copto, ritrovato negli anni Settanta del xx Secolo nel deserto presso El Minya, in Egitto, ed inizialmente datato (con il radiocarbonio) intorno al 280 d.C.. Citato — con disprezzo — per la prima volta da Ireneo attorno al 180 (ne è quindi anteriore), si tratta dell’unico testo che prende le difese di questo discepolo di Cristo, e gli studiosi cercano di dedurre il suo contenuto (con molte riserve) dai lineamenti generali dalla dottrina dei “Cainiti”, esposta dal solo Ireneo senza riscontri storici o di altri autori (Ireneo, nel suo zelo ossessivo, potrebbe anche averla inventata).
Il Vangelo di Giuda contiene nuove informazioni e presenta una visione alternativa del rapporto tra ‘Gesù’ e Giuda: contrariamente a quanto raccontano Matteo, Marco, Luca e Giovanni nel Nuovo Testamento — dove Giuda è notoriamente ritratto come un traditore, che muore suicida per impiccagione (Matteo) o per ventre squarciato (Atti) —, secondo quest’opera Giuda consegna ‘Gesù’ alle autorità su richiesta dello stesso Cristo. L’ipotesi è che ‘Gesù’ abbia segretamente dato istruzioni a Giuda di portarlo alle autorità romane: come già visto in precedenza, si spiegherebbe così la frase a lui rivolta e riportata dal Vangelo di Giovanni «Qualunque cosa tu debba fare, falla in fretta».
Lo scritto narra gli ultimi giorni della vita terrena di ‘Gesù’, il quale appare in contrasto con le usanze, i culti diffusi e con gli stessi discepoli, ritenuti incapaci di comprendere il vero spirito del suo messaggio; tra essi solo Giuda è in grado di servirlo veramente e di mettere in atto i suoi propositi.
«Ma tu sarai maggiore tra loro [gli altri Apostoli]. Poiché sacrificherai l’uomo che mi riveste». (“Vangelo di Giuda”, 137)
Il Maestro chiede quindi a Giuda, “discepolo prediletto” che è il solo altro ad avere in sé la scintilla del divino, di favorire la sua cattura e la sua morte, che lo libererà dal corpo — considerato un mero involucro che nasconde il sé divino —; gli parla poi del vero significato della Genesi ed espone una complicata cosmogonia con numerose emanazioni sovrumane (angeli, angeli del caos, eoni, luminari, tutti guidati dallo Spirito Supremo), di chiara matrice ideologica gnostica. Ci sono due specie di esseri umani: i primi sono uomini dall’anima immortale, creati da Dio secondo l’archetipo; i secondi sono esseri mortali, discendenti da Adamo e generati da un “angelo del caos” (“Nebro” o “Yaldabaoth”, un ribelle lordo di sangue aiutante di “El”, il cattivo demiurgo dell’Antico Testamento, a sua volta aiutato da “Saklas lo stolto”...). I “mortali” — la maggioranza degli uomini — non sono in grado di raggiungere la salvezza e praticano culti in onore di un falso dio, disconoscendo la natura del vero Essere Supremo. Giuda otterrà la salvazione, ma lungo la via “dovrà soffrire”: sarà escluso dai “Dodici” (che negli Atti effettivamente lo sostituiscono con Mattia) e sarà maledetto dalla “razza dei mortali”.
Il Vangelo di Giuda menziona Seth, il terzo figlio di Adamo ed Eva, nato dopo la tragica violenza di Caino e Abele e quindi capostipite di una nuova generazione umana, più illuminata. Inoltre si conclude con una trasfigurazione del discepolo (che entra in una nube lucente) e con la consegna di ‘Gesù’ alle autorità in cambio dei denari — senza accenni alla Crocifissione, che d’altro canto è inutile alla trama e a tutta la concezione gnostica (non è la carne, a risuscitare dopo).
La visione di Giuda emersa dal “suo Vangelo” rappresenta un boccone indigesto per la ‘cristianità’, ma rafforza l’ipotesi presentata in questo mio saggio: Yeshua bar Yosef ha consapevolmente impersonato e avverato le profezie ebraiche.
Per il dogma ‘cristiano’, ‘Gesù’ doveva morire per un “piano divino”, onde poter “espiare i peccati degli uomini”: senza il “tradimento” di Giuda, la Crocifissione avrebbe mai avuto luogo? Forse non nel modo che conosciamo — però sicuramente non avrebbe mai avuto luogo l’antisemitismo, nato e fomentato anche dall’immagine del cattivo giudeo Giuda! —. Nei secoli i lettori ‘cristiani’ si sono sempre cimentati su questo punto: se Cristo doveva morire sulla croce per la salvezza dell’umanità, allora Giuda, consegnandolo, non compì una buona azione? Perché le azioni di Giuda sono così “esemplarmente” cattive? I Quattro Evangelisti non si pongono mai la domanda; il solo Luca racconta che il traditore, invasato “da Satana”, s’informa di quanto può ricavare dalla delazione; Giovanni racconta che il futuro spione è anche l’amministratore del gruppo apostolare. Ogni riflessione sui “perché” viene liquidata senza ulteriori approfondimenti.
Con la locuzione “Manoscritti del Mar Morto” ci si riferisce a quella che è stata definita come la più importante scoperta archeologica del xx Secolo; il terreno su cui sorge il Khirbet Qumran è costituito da una terrazza marnosa che si stende tra il ripido versante roccioso di una montagna del Deserto di Giuda — quel deserto che brucia e ribrucia l’antichissima cicatrice d’una terra che, promessa com’era stata ad alcuni, non ha mai saputo a chi consegnarsi — e il dirupo che sovrasta il Mar Morto. Il fatto che la zona si trovi a 400 metri sotto il livello del Mar Mediterraneo, e che sia incassata tra catene di montagne, rende il clima pesante in tutte le stagioni per l’afa, il gran caldo e l’aria immobile, carica di un’alta percentuale di umidità dovuta alla rapida evaporazione delle acque del lago.
Alla fine del 1951 gli studiosi cominciarono ad interessarsi a tutta l’area attorno alla grotta in cui furono rinvenuti i manoscritti. Ulteriori campagne di ricerca e di scavi portarono, alla fine di marzo del 1956, alla scoperta di altre dieci grotte contenenti manoscritti e resti di vario genere. In origine, nei wadi c’erano circa mille documenti; una parte dei rotoli è stata scoperta e portata via già nell’antichità e nel Medioevo; altri rotoli sono marciti nel corso di circa due millenni senza lasciare tracce o sono stati trasformati dall’umidità in solidi blocchi impossibili da sciogliere. Inoltre, di rotoli originariamente molto grandi, sono rimasti nella maggior parte dei casi solo pochi frammenti. Non di rado i frammenti sono così piccoli che non è stata possibile neppure l’identificazione dell’opera di provenienza.
La grande maggioranza dei testi di Qumran è scritta in lingua ebraica, ma un considerevole numero di essi è redatto in aramaico, lingua strettamente connessa con l’ebraico e usata dalla maggioranza dagli Ebrei di Palestina negli ultimi due secoli a.C. e nei primi secoli d.C. (è l’idioma di Yeshua bar Yosef: bar è la versione aramaica dell’ebraico ben, “figlio di”). Ci sono anche pochi testi dell’Antico Testamento in greco, trovati in due degli undici wadi.
La datazione dei manoscritti è stata effettuata principalmente con il metodo paleografico, vale a dire attraverso l’individuazione della forma e dello stile (variabile nel corso dei secoli) con cui gli scribi hanno redatto i testi. Alcuni manoscritti sono stati datati con il metodo della spettrometria di massa e del radiocarbonio. Sono stati distinti tre periodi paleografici per i rotoli: arcaico (250–150 a.C.), asmoneo (150–30 a.C.) ed erodiano (30 a.C.–68/70 d.C.). La datazione con la spettrometria di massa ha addirittura fornito alcuni termini di gran lunga anteriori (388–353 a.C. per il frammento “4Q534”, 339–324 a.C. per il frammento “4Q365”), segno della longevità sia del sito che della comunità essena.
Ci sono evidenti somiglianze tra i dettagli citati dagli antichi scrittori — i già citati Giuseppe Flavio, Plinio il Vecchio e Filone Alessandrino —, riguardo gli Esseni, e i manoscritti del Mar Morto. In effetti, l’identificazione della comunità di Qumran con gli Esseni è oggi l’opinione della maggioranza degli studiosi che hanno studiato i manoscritti.
E non solo: uno dei grandi motivi di polemica risiede nell’identificazione di due (e forse tre) importanti figure della comunità del Mar Morto, il “Maestro di giustizia” e “l’Uomo di menzogna” (più il “Sacerdote Empio”). Una teoria, giocata sull’accumulo di allusioni nei testi, vuole l’equazione Maestro di giustizia = Giacomo il Giusto (fratello di ‘Gesù’) e Uomo di menzogna = ‘Paolo’ di Tarso, un’altra propone Maestro di giustizia = Giovanni il Battista e Sacerdote Empio = ‘Gesù’.
Il contenuto dei Rotoli è vario.
Il testo “1QIsa” — datato paleograficamente al 125–100 a.C. e con il radiocarbonio al 202–107 a.C. — contiene tutti i 66 capitoli del “Libro di Isaia” e rende testimonianza della fedeltà con cui tale libro è stato copiato nei secoli dagli scribi ebrei — è sostanzialmente identico al testo masoretico, di mille anni posteriore.
“1QS”, il Serek hayyahad, più comunemente chiamato “Regola della comunità” o “Il Manuale di disciplina”, datato al 100–75 a.C., è la copia di un regolamento comunitario scritto in calligrafia asmonea e contiene undici colonne di uno scritto settario ebraico; ha un’introduzione che fissa lo scopo e il fine della comunità insediata a Qumran, descrive poi il rito d’ingresso nell’alleanza della comunità, i principî teologici settari — ad esempio la dottrina dei due spiriti —, il codice penale, il testo di un inno di lode al Creatore.
“1QM”, il Milhamah, anche detto “Regola della guerra”, scritto in calligrafia erodiana, composto verso la fine del i Secolo a.C., è un libro di istruzioni per una guerra escatologica di quarant’anni che la comunità di Qumran, chiamata “i figli della luce”, pensa di intraprendere insieme a Dio e ai suoi angeli, contro i suoi nemici, “i figli delle tenebre”, alla fine dei tempi. Inizia con una generica descrizione della guerra a venire, il massacro finale e la distruzione dei “figli delle tenebre”. Più in dettaglio, detta regole circa le trombe, gli stendardi e gli scudi da usare nella lotta, e descrive l’ordine di battaglia e le armi della fanteria!
“1QH”, gli Hodayot, ossia gli “Inni di ringraziamento”, così chiamati perché molti degli inni iniziano con le parole odeka adonai, «ti ringrazio o Signore», sono scritti in calligrafia erodiana, datata paleograficamente al 50 a.C.–68 d.C., e raccolgono 25 salmi o inni rassomiglianti ai Salmi canonici, che tendono ad imitare. In questi testi si trovano le stesse terminologie usate da ‘Gesù’ nel celebre passo delle “Beatitudini” (Matteo [v,3-5]): i “poveri nello spirito”, quelli “che piangono” e i “tolleranti”.
“3Q15”, il “rotolo di rame”, due sezioni di un testo inciso su una piastra di rame, datato verso il 100 d.C., è l’unico documento scritto su un materiale diverso dal cuoio o dal papiro. Quando è stato trovato, il rotolo era talmente ossidato che è stato impossibile srotolarlo; per poterne leggere il contenuto è stato necessario tagliarlo in strisce verticali. Negli studi qumranici questo testo rappresenta una specie di enigma, perché nessuno sa che cosa rappresenti o che cosa l’autore voglia dire. Il contenuto è formato da dodici colonne di testo che elencano una lista di 64 località della Palestina in cui si ritiene che siano nascosti dei tesori in metallo e altri materiali preziosi. Forse fa riferimento al “tesoro del Tempio” messo al sicuro prima che Tito e le sue truppe irrompessero intorno al 70 d.C. durante la guerra che portò alla distruzione della capitale. (Il prof. J.M. Allegro, credendo che la lista parlasse di un reale tesoro sepolto, diresse una campagna di scavi nel 1962 in alcuni dei siti facilmente identificabili nel testo, ma non trovò nulla.)
“7Q5” è un blocco di frammenti simili ad un passo del Vangelo di Marco, o forse della Genesi in greco.
“11QMelch/11Q13”, datato paleograficamente tra la fine del i Secolo e l’inizio del ii Secolo a.C., è composto di tredici frammenti dai quali si sono ricavate due colonne: può essere riguardato come una sorta di targum, una parafrasi dei passi biblici che serve a spiegare e a interpretare i brani delle sacre scritture, in particolare della figura di Melchisedec, identificata come “creatura celeste” e “Messia”.
“11QTemple/11Q19”, il “Rotolo del Tempio”, datato con il radiocarbonio al 97 a.C.–1 d.C., è un testo ebraico (più lungo) del libro di Isaia, conservato in 66 colonne e scritto in calligrafia erodiana. Questo testo sembra aver rappresentato, per la comunità di Qumran, una seconda Torah: esso non solo cita molte norme del Pentateuco, ma spesso le affina e le riformula in modo da renderle più stringenti e rigorose. Le sue esigenze di purificazione cultuale, in particolare, sono molto rigide. L’inizio frammentario del rotolo contiene alcune parole che richiamano la seconda Alleanza stipulata sul monte Sinai (Esodo [xxxiv]). Segue una lunga sezione che riguarda il Tempio, con le relative feste e i sacrifici. Il “tempio” che viene descritto qui non corrisponde ad alcuno dei santuari storici d’Israele: è pensato come modello di un nuovo tempio da costruire in futuro, dopo la “vittoria dei giusti”. È uno dei 30 manoscritti del Mar Morto non biblici che contengono il Tetragramma biblico Yhwh.
Uno dei testi più interessanti è il “Documento di Damasco”, già in parte conosciuto in Occidente prima dei ritrovamenti di Qumran. Si fa riferimento al “Maestro di giustizia” che porta gli Ebrei nel deserto, a “Damasco” (da qui Qumran uguale “Damasco di Paolo”), per formulare in questa nuova sede un rinnovato patto (notare che “nuovo patto” venne tradotto in greco con “nuovo testamento”: forse fu qui l’origine del termine che identifica la parte ‘cristiana’ della Bibbia!) con Dio; si parla di altre “sedi” disseminate in tutta la Palestina (a riprova di un Essenismo diffuso proprio come sostiene Giuseppe Flavio, quando nella “Guerra giudaica” [ii,8,4] narra che i «messaggeri esseni non portavano provviste con sé poiché ovunque andassero c’erano gruppi di esseni che li rifocillavano»), e vengono elencate regole riguardanti il matrimonio e i figli (non c’erano quindi solo Esseni “celibi”!). Il testo accenna a due messia — un profeta chiamato “Astro” ed un principe della stirpe di Davide chiamato “Scettro” (il Battista e il Cristo?) — fornendo più largo credito all’ipotesi che il messianismo giudaico fosse in attesa di due figure, una “sacerdotale” ed una “regale”, e non una sola.
Altro documento di rilievo è il “Pesher (commento) ad Abacuc”, una specie di cronaca degli avvenimenti della sede essena del Mar Morto; anche qui si fa riferimento al trauma provocato dall’Uomo di menzogna, il quale determina una sorta di scisma in seno alla comunità “traviandone” con la sua predicazione una parte dei membri. Si accenna anche ad un “Sacerdote Empio”, ma non è chiaro se coincida o meno con l’Uomo di menzogna.
Il “messaggio in bottiglia” rinvenuto a Qumran ha fornito agli studiosi del Giudaismo e del ‘Cristianesimo’ antico una inaspettata quantità di fonti per meglio comprendere la società e l’ideologia della Palestina in cui fu all’opera Yeshua, ma è stato anche sfruttato per diffondere interpretazioni insostenibili. Fin dall’inizio della pubblicazione su larga scala c’è stato un confronto con i testi del Nuovo Testamento e si è incominciato ad evidenziarne analogie e differenze. La spiegazione più seguita è che si tratti di due movimenti che affondavano le radici in un terreno comune, ma con sviluppi in gran parte indipendenti; alcuni studiosi hanno proposto una parziale identificazione dei protagonisti dei due corpi letterari. Su questo terreno si è generato un feroce dibattito che contrappone la pletora degli studiosi di Qumran, di Ebraismo, di Nuovo Testamento e di ‘Cristianesimo’ antico ad uno sparuto gruppo di studiosi, scrittori e giornalisti la cui voce è stata potentemente — e spesso irresponsabilmente — amplificata dai mezzi di comunicazione di massa. Le discussioni sono andate di pari passo con una accesa — e giustificata — polemica sulla lentezza delle pubblicazioni dei manoscritti di Qumran e con l’accusa di monopolio dei testi da parte di una ristretta équipe di studiosi orientata ideologicamente, che ne avrebbe anche fissato una interpretazione edulcorata su intrighi orditi all’ombra del Vaticano...
Al di là delle polemiche e delle teorie cospirative, è un fatto che sia la “biblioteca” di Nag Hammâdi che i Rotoli di Qumran rappresentino uno “scomodo problema” per le certezze della Chiesa di Roma, i cui dogmi quasi bimillenari non prevedono “Essenismi giudaici”, “Essenismi cristiani”, “Mitraismi” e “Gnosi” varie.
Che dire di una conoscenza salvifica che non ha bisogno di intermediari (i preti) per essere raggiunta, come quella propugnata dagli Gnostici? Come può essere accolto il fatto che il sacerdote esseno (detto “Messia d’Israele”), già prima dell’Ultima Cena, benedice il pane e il vino? E che dire del collegamento fra gli Esseni e gli Zeloti, un gruppo facilmente identificabile con almeno una parte delle aspettative intorno a ‘Gesù’ “liberatore d’Israele”, nel già citato passo di Ippolito Romano?
Altri [esseni] udendo qualcuno discorrere di Dio e delle sue leggi, si accertano se è incirconciso, attendono che sia solo e poi lo minacciano di morte se non si lascia circoncidere; qualora non acconsenta essi non lo risparmiano, lo assassinano: è appunto da questo che hanno preso il nome di Zeloti, e da altri quello di Sicari. (Ippolito Romano, “Refutatio” [ix,26])
Anche gli Zeloti furono oggetto di censura da parte della Chiesa di Roma, sebbene per una motivazione accessoria.
Gruppo politico-religioso giudaico apparso all’inizio del i Secolo, gli Zeloti erano partigiani accaniti dell’indipendenza politica del regno ebraico, nonché — quali esseno-giudaici — difensori dell’ortodossia e dell’integralismo ebraici. Fondati da Giuda “il Galileo”, ebbero stretti rapporti con la comunità di Qumran (evidenti nel “Rotolo della guerra”) e svolsero un ruolo importante nella grande rivolta del 66–70; lo Zelotismo si impadronì gradualmente delle masse, urbane e ancor più di campagna, le portò al fanatismo e le condusse alla violenza dei predoni e dei Sicari, che portarono alla catastrofe finale della Prima Guerra Giudaica. La caduta di Gerusalemme non bastò a segnarne la sconfitta: gli ultimi Zeloti, con a capo Eleazaro, si rifugiarono in un estremo tentativo di resistenza nella fortezza di Masada, a sud del deserto di Giuda, vicino al Mar Morto. Quando si videro perduti, nel 74 d.C. tutti i 960 Zeloti si diedero la morte.
Però, mentre il paese veniva così ripulito, in Gerusalemme nacque una nuova forma di banditismo, quella dei cosiddetti Sicari [Ekariot], che commettevano assassini in pieno giorno e nel bel mezzo della città. Era specialmente in occasione delle feste che essi si mescolavano alla folla, nascondendo sotto le vesti dei piccoli pugnali [sicae], e con questi colpivano i loro avversari; poi, quando questi cadevano, gli assassini si univano a coloro che esprimevano il loro orrore e lo facevano così bene da essere creduti e perciò non era possibile scoprirli. (Giuseppe Flavio, “Guerra Giudaica” [ii,13,3.254-255])
Giuda il Galileo si pose come guida di una quarta filosofia. Questa scuola concorda con tutte le opinioni dei Farisei eccetto nel fatto che costoro hanno un ardentissimo amore per la libertà, convinti come sono che solo Dio è loro guida e padrone. Ad essi poco importa affrontare forme di morte non comuni, permettere che la vendetta si scagli contro parenti e amici, purché possano evitare di chiamare un uomo “padrone”. (Giuseppe Flavio, “Antichità Giudaiche” [xviii,1,6.23])
È facile desumere da qui che lo “zelotismo” non fu che un fariseismo fanatico, capace di passare dal piano religioso a quello politico con il pretesto di non obbedire ad altri che a Dio.
Fra i tanti termini che indicavano i combattenti messianisti (in greco Chrestianoi!) sono degni di rilievo l’ebraico Bariona — soprannome di Pietro — ed il latino Galilaei — come sono chiamati ‘Gesù’ e i “Dodici” —: con certezza, gli Apostoli erano coinvolti nel movimento con Simone (detto per l’appunto “Zelota” in Luca [vi,15] e Atti [i,13]), mentre è più articolata la questione circa il coinvolgimento degli altri — Giuda detto “Iscariota”, cioè Ekariot (Sicario), Simon Pietro detto “Bariona” —. Ma c’è un passo sintomatico del Vangelo di Luca in cui Giacomo di Zebedeo e suo fratello Giovanni chiedono a ‘Gesù’ il permesso di incendiare un villaggio di samaritani dal quale il Cristo e i suoi seguaci sono stati respinti:
... entrarono in un villaggio di Samaritani per fare i preparativi per lui. Ma essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?...». (Luca [ix,51-56])
A quell’epoca, era costume degli Zeloti colpire con il fuoco case e villaggi di collaborazionisti e nemici: il passo fu evidentemente manomesso per renderlo meno compromettente. Cosa che stranamente invece non avvenne con un altro passo, comune a Matteo e Luca, che da duemila anni imbarazza la Chiesa (la quale tenta di spacciarlo per “allegoria”):
«Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada». (Matteo [x,34])
Poi disse: «Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?». Risposero: «Nulla». Ed egli soggiunse: «Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una». (Luca [xxii,35-36])
Matteo ne parla quando la Passione è ancora ben lontana; Luca “aggiusta” il versetto e lo situa dopo l’Ultima Cena: il momento dovette sembrargli più plausibile poiché poco dopo, nella concitazione del Gethsemani, compare la spada che tronca l’orecchio del servo Malco. In ogni caso in Matteo avvenne un cambio di termine che rese meno “imbarazzante” l’impegno di lotta politica armata che, se non Yeshua, caratterizzava sicuramente almeno una parte del suo seguito:
Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà». (Matteo [xvi,24-25])
Perché si parla di «perdere la propria vita»? Perché è la fine quasi sicura che fanno i rivoltosi, gli oppositori a Roma. La “croce” non ha alcun senso, in tale contesto. Il reale senso delle parole «chi vorrà salva la vita la perderà, chi a causa mia perderà la vita la troverà» è: se lotti insieme a me, forse verrai ucciso, ma avrai almeno raggiunto la salvezza dell’anima, perché avrai tentato; se invece rinunci a lottare per liberare il tuo popolo, forse sopravviverai, ma di sicuro non sarai più in pace con te stesso. Ecco il passo di Matteo riacquistare senso con dentro il termine censurato:
Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua spada e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà».
È questa la “motivazione accessoria” per la censura sugli Zeloti: l’elemento zelota nell’originale gruppo di Apostoli venne mascherato e sovrascritto per dar modo alla “chiesa di Paolo” di assimilarsi all’elemento romano e di far proseliti tra i “Gentili”.
La comunità di Qumran presenta similitudini notevoli con la testimonianza evangelica: infatti nell’attesa della liberazione dall’oppressione romana, si posero in conflitto con la classe politica e sacerdotale (i Sadducei etichettati come collaborazionisti) gli Scribi ed i Farisei messi alla berlina anche da ‘Gesù’ («farisei, sadducei, scribi, pubblicani... guai a voi!», in Matteo [xxiii]).
Si è già visto che alcune usanze essene erano uguali a quelle ‘cristiane’ dei primi secoli: ciò può essere dovuto alla comune origine giudaica e all’uso delle medesime scritture bibliche, ma i numerosi paralleli esistenti tra gli scritti di Qumran e i Quattro Vangeli hanno convinto un buon numero di studiosi del fatto che le dottrine e le tradizioni delle comunità essene abbiano costituito la base fondamentale sulla quale si sviluppò successivamente il ‘Cristianesimo’. Del resto, la qualifica di ‘cristiani’ apparve solo dal 50 d.C. (dando per scontato che ‘Paolo’ sia esistito e, soprattutto, abbia agito in tale epoca), come è riconosciuto dallo stesso testo neotestamentario...
Rimasero insieme un anno intero in quella comunità e istruirono molta gente; ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati Cristiani. (Atti degli Apostoli [xi,26])
...e solo in seguito venne usata per descrivere un’ampia parte di quel “mondo d’oltremare” cosmopolita e non-violento, carico di martiri pacifisti, che ormai aveva poco a che spartire con la Palestina zelota, xenofoba e “apocalittica”. Nella letteratura qumranica si evidenzia un’élite messianica che si “separa” ritirandosi nel deserto, in conformità alle parole di Isaia, preparandosi ad essere “raggiunta dagli angeli” per affrontare la “guerra definitiva contro il male”. Lo stesso Giuseppe Flavio (“Vita” [i,10-12]) fa apprendistato per 3 anni nel deserto al seguito dell’esseno Banno (il passo ispirò il ‘Gesù’ “nel deserto”?).
Anche l’archeologia legittima l’ipotesi della parentela esseno-cristiana. Addirittura, le scoperte dell’archeologo padre Bargil Pixner hanno evidenziato che il primo luogo di riunione dell’atavica comunità ‘cristiana’ a Gerusalemme — nonché presunta sede di svolgimento dell’Ultima Cena — era ubicato nelle immediate vicinanze del quartiere degli Esseni: in sostanza Esseni e primi ‘cristiani’ vivevano, almeno nella capitale, porta a porta! Cosa può rendere più plausibile l’ipotesi di contatti diretti e frequenti tra Esseni e ‘cristiani’? In più, alcune evidenze di ordine storico hanno convinto molti studiosi del fatto che siano avvenute conversioni in massa di Esseni al ‘Cristianesimo’.
Sia gli Esseni che i primi ‘cristiani’ erano Ebrei che condividevano alcuni testi sacri e appartenevano alla stessa cultura; tuttavia, ciò che maggiormente caratterizzava la comunità essena nei confronti delle coeve scuole giudaiche consisteva nella introduzione di particolari sincretismi religiosi estranei al Giudaismo tradizionale. Il gruppo degli Esseni subì influssi esterni all’Ebraismo: la sottolineatura del dualismo bene-male, l’atteggiamento di venerazione di fronte al Sole, la dottrina sugli “angeli”, la presenza di bagni rituali, si collegano tutti a tradizioni iraniche; il celibato, il cenobitismo, la riprovazione dei sacrifici cruenti e dell’olio rinviano a tradizioni buddhiste, anche se non sono disponibili documenti comprovanti contatti culturali tra India e Palestina nel periodo ellenistico-romano; quanto al silenzio comunitario, agli anni di noviziato, alle vesti bianche, alle prescrizioni della dieta, all’esoterismo della dottrina garantita dal giuramento, all’escatologia, il collegamento con le scuole filosofiche greche viene quasi spontaneo, specie con la tradizione pitagorica.
Tali divergenze, presenti anche nel ‘Cristianesimo’ successivo, fanno supporre significative convergenze tra Essenismo e ‘Cristianesimo’ giudeo-cristiano (Elcasaiti, ma soprattutto Ebioniti: ebrei seguaci di ‘Gesù’ alla luce del suo ebraismo, i quali credevano che fosse effettivamente il Messia ebreo mandato dal Dio ebreo al popolo ebraico, e che rappresentasse il “sacrificio perfetto” e finale per la redenzione dei peccati, superando da allora la necessità di sacrificare animali).
Per quanto riguarda le analisi filologiche comparative, tra gli scritti di Qumran e il Nuovo Testamento le rassomiglianze sono nette. Un testo particolare, una data espressione o titolo trovano in entrambi corrispondenze sorprendenti; le formule introduttorie del Nuovo Testamento sono invariabilmente più vicine alle formule di Qumran che alle formule mishnaiche, e talvolta sono perfino traduzioni letterali delle formule di Qumran.
«La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
«Camminate mentre avete la Luce, perché non vi sorprendano le Tenebre; chi cammina nelle Tenebre non sa dove va. Mentre avete la Luce credete nella Luce, per diventare Figli della Luce».
«Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre».
Passi del Vangelo di Giovanni da rileggere alla luce di queste frasi molto più antiche:
Per il saggio affinché ammaestri tutti i Figli della Luce [...] In una sorgente di Luce sono le origini della verità e da una fonte di Tenebra le origini dell’ingiustizia. (“Regola della Comunità”)
«...allorché i Figli della Luce porranno mano all’attacco contro il partito dei Figli delle Tenebre...». (“Regola della Guerra”)
Anche Luca conferma che ‘Gesù’ li conosce con lo stesso appellativo, sebbene lo usi per sottolinearne una critica:
«[...] I figli di questa società, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce». (Luca [xvi,8])
Ne parla pure ‘Paolo’ (anche se la paternità del testo è incerta):
Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; [...]. (Lettera agli Efesini [v,8])
Certo la visione d’insieme è ancora lontana dal far affermare che “Gesù era un Esseno”; però non è esagerato dire che prima delle scoperte di Qumran la figura di Gesù Cristo equivaleva ad un frutto meraviglioso ed esotico, mentre oggi possiamo contemplarlo ancora sul suo albero, assieme a frutti diversi ma pure dotati di una linfa comune, che ciascun ramo trasforma a suo modo. Proprio i testi di Qumran consentono, come nessun altro testo, di comprendere le radici di questo albero e delle sue diverse ramificazioni, nonché di vedere come questa linfa comune venga trasformata in frutti molto differenti.
Quasi a riprova della metafora albero-frutti, anche le differenze con la dottrina su ‘Gesù’ sono sostanziali — confermando l’esistenza di più di un singolo Essenismo —, specialmente per quanto riguarda il complesso sistema di norme che regolava il tipico modo di vivere esseno, che sono riassumibili in quattro paradigmi: Ascetismo, Legalismo, Ritualismo ed Esclusivismo.
Nel primo caso, la personalità del ‘Gesù’ tratteggiata dai Vangeli e predicata dagli Apostoli è tutt’altra: Yeshua bar Yosef si schiera contro l’ascetismo, non insegna ad alienarsi dal mondo come richiede il codice di vita esseno ma ad andare anzi verso il mondo, a predicare il vangelo di salvezza (l’ascetismo ‘cristiano’ inizierà a manifestarsi due secoli dopo con Sant’Antonio, i “Padri del deserto” e Pacomio; in occidente ancora piu tardi con San Benedetto e San Bernardo). I ‘cristiani’ potrebbero ritirarsi ai margini della società come il gruppo di Qumran e tenere gli occhi fissi al cielo nell’attesa del ritorno del Figlio dell’Uomo. In questo caso abbandonerebbero il mondo alle potenze malvagie, riservando a se stessi uno spazio protetto e privilegiato. Comportandosi così però la Chiesa non crederebbe veramente in Dio, e il significato di ‘Gesù’ sarebbe limitato al futuro apocalittico. Per la stessa ragione, la comunità ‘cristiana’ non si dà regole ascetiche né in materia di sesso, né di alimenti, né di vestiario.
Nel caso del Legalismo, nella comunità ‘cristiana’ primitiva mancava ciò che era fondamentale a Qumran: la suddivisione dei membri in classi, la definizione dei diritti e dei doveri all’interno di ciascuna di esse — per esempio il minuzioso codice di procedura per le assemblee e per i pasti —. ‘Gesù’ afferma esattamente il contrario scontrandosi proprio con i fautori del legalismo — i cosiddetti “Farisei” —, da lui accusati di imporre pesi insostenibili sulle spalle della gente.
Per quanto riguarda il terzo aspetto, il Ritualismo, ‘Gesù’ è uno che vìola il sabato e le prescrizioni rituali: è spesso accusato di essere uno che mangia e beve con i peccatori e le prostitute — cosa inconcepibile per un esseno, che, prima di mettersi a tavola, doveva purificarsi con abluzioni rituali e vestirsi di bianco.
E c’è poi l’Esclusivismo: mai un esseno avrebbe avuto contatti con donne straniere, ‘Gesù’ invece incontra e parla con la samaritana, che se ne meraviglia (Giovanni [iv,5]), e accetta di essere unto d’olio profumato dalla peccatrice scandalizzando il “fariseo” che lo ha invitato alla sua tavola (Matteo [xv,22]). Il testo del rotolo “1Qsa 2.3-8” vieta l’ammissione alla tavola della mensa di storpi e zoppi; ‘Gesù’ afferma di esser venuto per loro e addirittura racconta la parabola del gran convito (Luca [xiv,12-14]). Nel testo del rotolo “4Q266” è raccomandato: «stupidi, folli, matti, ciechi, storpi e zoppi non siano accettati nella comunità», ‘Gesù’ invece va in cerca di loro (Luca [v,27-37]), ed entra in casa di Simone “il lebbroso” (Marco [xiv,3]): cosa imperdonabile per un esseno.
Qumran radunava eletti e giusti, ‘Gesù’ cerca peccatori. Il gruppo di ‘Gesù’ è una comunità aperta e vi fanno parte tutti quelli che lo vogliono, il gruppo damasceno fu una comunità chiusa e segreta; degli Apostoli si conoscono i nomi, degli Esseni era vietato divulgarli...
E accanto ad una dottrina su ‘Gesù’ che diverge, si registra un quadro storico affascinante nel quale i “comprimari” di ‘Gesù’ (il fratello Giacomo e Saulo di Tarso), che sono alla base della dottrina ‘cristiana’, sembrano convergere in modo impressionante con i contenuti qumranici indicando in che modo Essenismo e ‘Cristianesimo’ divennero due strade distinte che non si incontrarono più.
Letta indifferentemente dal lato del Nuovo Testamento o dal lato del “Commento ad Abacuc”, la storia raccontata appare una sola... Giacomo “il Giusto” (Saddiq, stessa origine di “Sadducei”) è un modello di rettitudine a capo d’una comunità religiosa i cui membri sono “zelanti della legge” — cioè Zeloti, e quindi Esseni: con “Sadducei”, tutti termini intercambiabili —; egli si trova a lottare con due distinti avversari: un estraneo che, dopo aver perseguitato la comunità, si converte ed è ammesso al suo interno (‘Paolo’, che ritrova la vista a “Damasco” dopo l’imposizione delle mani dello “stimato Anania”), salvo poi diventare un rinnegato (“Uomo di menzogna”) che si appropria dell’immagine di ‘Gesù’ e la stravolge («il mio, avuto “per rivelazione”, è l’unico vero Cristo»), causando un terremoto a Qumran (sono le stesse trasgressioni per le quali, negli Atti degli Apostoli, Saulo/‘Paolo’ sta per essere ucciso?); ed uno esterno alla comunità, il Sommo Sacerdote Anna (il “Sacerdote Empio”), uomo corrotto ed odiato, collaborazionista, che in seguito lo farà pure uccidere, per poi venire a sua volta ucciso dai discepoli di Giacomo che ne profaneranno il cadavere. A ben guardare, in effetti ‘Paolo’ è ossessionato dal desiderio di discolparsi da implicite accuse di “menzogna”:
Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto banditore e apostolo — dico la verità, non mentisco —, maestro dei pagani nella fede e nella verità. (i Lettera a Timoteo [ii,7])
Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. (ii Lettera ai Corinzi [xi,31])
Perfino l’unico elemento che non si concilia con questa lettura parallela — persecuzione e morte di Giacomo avvenute a Gerusalemme, laddove il Pesher parla solo di cronache “qumraniche” — sembra trovare esplicita spiegazione negli stessi Rotoli, quando si narra che nel periodo dei fatti “i capi della comunità risiedono nella capitale” (particolare confermato dai citati scavi archeologici di Pixner).
In realtà l’atteggiamento ostracistico della Chiesa Romana ha finito per impedire una corretta lettura del contesto, dando vigore ad una doppia equazione (Maestro di giustizia = Giacomo il Giusto e Uomo di menzogna = ‘Paolo’/Saulo di Tarso) che, per quanto sexy possa apparire, può essere facilmente smentita dall’analisi della Giudea dell’epoca: basta fare un passo indietro e verificare tramite gli storici.
La conquista pompeiana della Siria nel 63 a.C. determinò nuovi equilibri e problemi per l’area mediorientale: in Palestina, annessa all’Impero in qualità di protettorato, c’era il conflitto tra i due fratelli Aristobulo e Ircano ii appartenenti a quel casato degli Asmonei che faceva risalire la sua ascendenza alla stirpe di Davide. Pompeo, eletto arbitro della contesa, decise in favore del capo sacerdote Ircano scontentando i sostenitori di Aristobulo, i quali organizzarono una rivolta armata. La successiva repressione romana della rivolta portò all’occupazione di Gerusalemme e alla profanazione del Tempio da parte dei legionari — cosa che scatenò l’odio degli Ebrei —. Sin dai tempi di Erode il Grande, l’ingresso nell’atrio interno del Tempio era stato interdetto, sotto pena di morte, ai non circoncisi: un’iscrizione greca del Tempio erodiano ritrovata nel 1871 recita «Nessuno straniero metta piede entro la balaustrata che sta attorno al Tempio e nel recinto. Colui che vi fosse sorpreso, sarà la causa per se stesso della morte che ne seguirà». Si trattava di uno dei rari casi in cui ai soldati giudei era lecito mettere a morte un uomo.
Sedata la rivolta e riconfermato Ircano al trono di Gerusalemme — sotto tutela del ministro idumeo Antipatro, uomo di fiducia di Pompeo e per alcuni studiosi all’origine del nome “Panthera” —, Pompeo partì per Roma lasciando di presidio una legione a Gerusalemme. All’epoca il territorio giudaico comprendeva approssimativamente Perea e Giudea da una parte e Galilea dall’altra; la Samaria, perenne dissidente della comunità culturale di Gerusalemme, in mezzo, ne era esclusa e separava il regno in due. Giulio Cesare, vinta la guerra civile, riconfermò (47 a.C.) l’assetto dato da Pompeo alla Palestina: Ircano ii al trono di Gerusalemme con la tutela di Antipatro. Nella successiva guerra in Oriente, Cesare venne soccorso da Erode (44 a.C.), figlio di Antipatro, che si schierò con lui nella repressione contro i rivoltosi di Ezechia, figlio di Aristobulo, al fine di ipotecare la successione agli Asmonei sul trono di Gerusalemme. La cosa suscitò grande scandalo, tanto che alcuni sacerdoti chiesero inutilmente a Ircano la condanna di Erode.
Il movimento yahwista idealizzò in chiave antiromana il martirio di Ezechia, e identificò in Erode “l’Uomo di Menzogna” e in Ircano il “Sacerdote Empio”, finendo per accentuare un dualismo tra “mondo della luce” e “mondo delle tenebre”.
Ecco l’origine dei termini!
Nel 40 a.C. Antigono, figlio di Aristobulo, con l’aiuto dei Parti spodestò Ircano infliggendogli una mutilazione che gli precluse il sacerdozio; Erode, fuggito a Roma, si fece nominare re di Giudea e nel 37 a.C. conquistò il trono uccidendo Aristobulo. Per i Romani, Erode divenne l’uomo chiave della regione, il pacator orbis, e in ricompensa il governo di Roma aggiunse al regno erodiano Samaria, territori del nord-est (Gaulanitis, Trachonitis, Batanaia) e delle città costiere (Gadara e Hippos). Al rientro di Ircano dalla prigionia, Erode fece uccidere lui e tutti i suoi discendenti (che potevano contestargli il regno) ed eredi, compresa la moglie ed i due figli avuti da lei: probabilmente la “Strage degli Innocenti” riportata dai Vangeli — della quale non si hanno evidenze storiche — trae spunto proprio da questo episodio!
Eliminata la discendenza di Ircano, la “legittima” rivendicazione del trono era ora esclusiva della discendenza di Aristobulo. L’opposizione ad Erode e alle influenze ellenistiche che egli rappresentava — a Gerusalemme intervenne non solo promuovendo un radicale abbellimento del Tempio ma anche con la fondazione di un tempio ad Augusto —, si saldarono con le istanze di coloro che predicavano la “Nuova Allenza”, i quali inaugurarono rituali basati sul battesimo e sui pasti in comune e disprezzarono con foga la nuova Gerusalemme («città di vanità») costruita “dall’Uomo di Menzogna”.
La morte di Erode nel 4 a.C. indebolì notevolmente il controllo romano dell’area a causa di una complicata successione al trono tra i suoi tre figli: Archelao (etnarca e re di Giudea, Samaria e Idumea) deposto nel 6 d.C. per l’incompetenza dimostrata, Erode Antipa (tetrarca e re di Perea e Galilea fino al 39 d.C.), Filippo (tetrarca e re, fino alla morte nel 33/34 d.C., dei territori del nord-est).
Giuda “il Galileo”, figlio di Ezechia, pretendente al trono di Gerusalemme quale asmoneo, approfittò della situazione e con un esercito formato da esseno-zeloti attaccò i Romani di stanza a Gerusalemme, provocando una reazione che terminò solo dopo ben tre interventi da parte di Quintilio Varo, proconsole in Siria. La repressione da parte dei Romani fu feroce: la crocifissione di duemila rivoltosi (quanti chiodi?!) generò ulteriore odio verso i Romani da parte degli Ebrei.
Sedata solo temporaneamente la sommossa, nel 7 d.C. i Romani decisero di riorganizzare amministrativamente e fiscalmente la Giudea (che passò da regno tributario al rango di provincia imperiale), pianificando allo scopo un censimento per quella che per l’epoca era una delle imposte più importanti: il “testatico”. A supervisionare il censimento suddetto fu lo stesso governatore della Siria Publio Sulpicio Quirinio (quello confuso dall’Evangelista Luca), diretto superiore del praefectus romanus e degli stessi tetrarchi erodiani. Questa iniziativa fu la scintilla che accese la celebre “rivolta del censimento” nella quale trovò la morte lo stesso Giuda “il Galileo”.
Morale: è la Storia stessa, a smentire l’equazione che riguarda Giacomo il Giusto e ‘Paolo’. A Qumran in realtà si parlava d’altro.
Lo Gnosticismo fu l’altro “ostacolo” della Chiesa di Roma — ma lo sarebbe stato anche molti secoli dopo, con i Càtari — sulla via della formazione della nuova religio. E via via i testi gnostici furono messi al bando e bollati come apocrifi o eretici, fino a che non vennero più ricopiati.
Il termine “apocrifo” è normalmente usato per indicare le opere attribuite ad un determinato autore ma di cui si è raggiunta la certezza che tale attribuzione sia errata. Un testo apocrifo è quindi spesso un testo che viene attribuito ad un autore per un errore di antichi critici, o per una scorretta tradizione. In campo religioso il termine è invece generalmente riferito a quelle scritture religiose, o “testi sacri”, ritenute non canoniche, che cioè non rientrano, secondo l’interpretazione prevalente e/o ufficiale, nell’elenco dei libri sacri. L’argomento è vasto e per ogni confessione religiosa è possibile trovare testi che rientrino in questa definizione. La parola “apocrifo” viene dal greco apocrypha, “occulto, arcano”. Con la definizione del canone (termine che in greco significa “bastone”, “regolo per misurare”) della Bibbia ‘cristiana’, gli scritti esclusi vennero considerati non autentici; di qui iniziò l’uso di “apocrifo” con significato di falso. Il termine preciso per indicare questa categoria è “pseudoepigrafi”, cioè in greco “dal titolo falso”. In realtà anche alcuni libri canonici del Nuovo Testamento sono probabilmente pseudoepigrafi (come la Seconda Lettera di Pietro, scritta quasi certamente dopo la sua morte). Il termine apocrifo non ha quindi necessariamente un significato peggiorativo.
I quattro criteri della Chiesa ‘cristiana’ per considerare un testo canonico erano:
Origine Apostolica: attribuibile all’insegnamento o alla diretta scrittura degli Apostoli o dei loro più stretti compagni;
Consenso Universale: riconosciuto da tutte le più importanti Comunità ‘cristiane’ del periodo (iv Secolo d.C.);
Uso Liturgico: scritti redatti direttamente dall’insegnamento orale del Cristo e letti pubblicamente quando le “prime comunità cristiane” si riunivano settimanalmente;
Messaggio Consistente: testi che hanno contenuti teologici simili o complementari alle “scritture” già accettate.
Nessuna, fra opere gnostiche come il “Vangelo degli Ebioniti”, il “Vangelo di Filippo”, il “Vangelo di Maria”, il “Vangelo di Pietro”, il “Vangelo di Didimo Tommaso”, il “Vangelo dell’infanzia di Tommaso”, il “Libro segreto di Giacomo” o il “Vangelo di Giuda”, pur diffusissime, aveva le caratteristiche richieste dall’ortodossia ecclesiastica romana. I Vangeli Apocrifi in generale costituivano per i primi ‘cristiani’ una risposta all’ingenuo bisogno di conoscere del Salvatore più di quanto i Sinottici non dicano: ad esempio, il silenzio sulla fanciullezza del Salvatore è colmato dagli Apocrifi con il racconto di ogni sorta di miracoli, che però lo fanno apparire come un dio-bambino prepotente e vendicativo; soprattutto, in essi la figura di ‘Gesù’ appare molto legata alla inaccettabile tradizione ebraica di un “Unto del Signore” venuto a ricostruire l’antico regno di Davide e a purificare la società ebraica dalla corruzione e dalla connivenza con il “paganesimo romano”. Altra compromettente differenza era il rigetto, più o meno esplicito, degli insegnamenti di ‘Paolo’, considerato apostata della fede. Ma il vero problema fu un altro.
Lo Gnosticismo insiste sull’idea di una sorta di “insegnamento segreto” riservato da ‘Gesù’ solo a pochi dei suoi discepoli e impartito nel periodo tra la Risurrezione e l’Ascensione — periodo considerato dagli Gnostici ben più esteso dei canonici “quaranta” giorni —; la “dottrina salvifica” viene rivelata direttamente da Cristo alla ristretta cerchia degli iniziati, escludendo così la gerarchia della Chiesa. In più, essa deve giungere attraverso esperienze personali (appunto la gnosi) e non attraverso lo studio dei testi canonici: per gli Gnostici, il problema fondamentale della vita umana non è il peccato ma l’ignoranza, e la via migliore per risolverlo non è quella d’una fede — peraltro imposta da “detentori del sapere divino” — ma della conoscenza.
Gli Gnostici elaborarono una complicata cosmogonia al fine di spiegare l’origine del “mondo materiale”: un Dio unico e inconoscibile (l’Eone eterno e perfetto) ha emanato alcune “coppie” di entità divine minori che si generano le une dalle altre e si estendono all’infinito a formare tutte insieme il “Pleroma” (la pienezza del divino); l’ultima di esse, però, “Sophia”, per la brama di conoscere l’inconoscibile attira su di sé la punizione di Dio, che la scaccia dal Pleroma. Esiliata dalla sua patria celeste (come Eva), Sophia emana una serie di eoni inferiori (gli Arconti) tra i quali il “Demiurgo” (Yaldabaoth), indentificato con Yahweh, il “Dio vendicativo” dell’Antico Testamento. Questa potenza ignorante (del mondo superiore perfetto) è la responsabile della creazione del mondo materiale, del cosmo e dell’uomo. Tuttavia le potenze superiori, commosse dal pianto di pentimento di Sophia, le concedono di ascendere fino ai margini del “mondo della Luce”.
In questa complessa visione la realtà umana è vincolata all’imperfetto mondo materiale, ma in essa è imprigionata quell’anima (una “particella della Luce”, o Pneuma) che può essere in grado di sfuggire al giogo del Demiurgo. Va da sé che gli uomini non sono consci di possedere in nuce una scintilla divina, per cui viene inviato sulla Terra l’eone Cristo a “svelare agli iniziati” questa verità. Tuttavia l’eone Cristo non si “incarna” in ‘Gesù’: egli fa solo in modo che gli umani percepiscano la sua “illusoria realtà umana” come reale — da questi concetti partì poi il “Docetismo”, con il rifiuto della morte in croce e risurrezione del Cristo (nel senso di corpo materiale): «egli non muore crocifisso (è solo l’involucro di carne che lo fa) ma ritorna direttamente al suo mondo superiore» (spiegando così la frase sulla croce «Padre mio, perché mi hai abbandonato?»).
Negli Gnostici non c’è “risurrezione” — il concetto del ‘Cristianesimo’ di un cadavere che si rianima li fa anzi sorridere —. Perché dovrebbe esserci, quando tutta la questione della salvezza sta nella fuga dalla materia? Il ridestarsi di una salma riporta la persona dentro al mondo del falso Dio: l’opposto di ciò che il Cristo gnostico rivela! Chi arriva alla radicale conoscenza di sé raggiunge la radice della vita e non ha bisogno di risurrezione, poiché arriva alla vita eterna che possiede già in se stesso.
(In effetti, comunque, nessuno dei Sinottici addotti come testimonianza di ‘Gesù’ risorto parla esplicitamente di “risurrezione”, e in Marco i riferimenti sono addirittura dei “post-it™”... Il solo Giovanni [xxi,14] dice «risuscitato dai morti», ma il Quarto Evangelista è un habitué della risurrezione di salme, come si evince da quella di Làzzaro.)
Nella pratica quotidiana, ogni setta predicava una propria variante al credo gnostico, e quindi un proprio culto; alcune sette respingevano completamente i sacramenti, altre accettavano quali strumenti di conoscenza il Battesimo e l’Eucaristia ma li affiancavano ad altri riti che, per mezzo di inni e formule magiche, dovevano propiziare l’ascesa al regno spirituale del principio divino imprigionato nel corpo materiale. Da un punto di vista etico, la struttura dello Gnosticismo oscillava poi fra il rigore e il lassismo: se infatti la valutazione negativa della materia e del corpo spingeva alcuni gruppi ad astenersi anche dal matrimonio e dalla procreazione (l’attaccamento al corpo è il primo problema dell’esistenza umana, ed è facile restarvi attaccati per mezzo del piacere: bisogna dunque negargli ogni piacere), la convinzione che l’anima sia assolutamente estranea al mondo materiale portava altre correnti a giudicare in termini relativistici ogni atto connesso con il corpo, autorizzando orge e depravazioni varie.
Come ragioni con uno gnostico, cioè con una persona convinta di detenere la sapienza segreta che a te manca? Se gli dici che sbaglia, l’interlocutore gnostico fa spallucce e ti risponde che “non sai”...
Queste idee e questi atteggiamenti spianarono la strada ai dogmi ‘cristiani’ che si consolidarono nel corso di un’aspra battaglia durata oltre due secoli, alla fine della quale “il vincitore riscrisse la Storia” facendo scomparire le tracce dell’Essenismo e dello Gnosticismo — almeno fino alle scoperte di Nag Hammâdi e Qumran.
La battaglia per le “sacre scritture”
Il “Cristianesimo dei primordi”, iniziato con lo stesso ‘Gesù’, aveva già le sue sacre scritture: quelle ebraiche, specialmente la Legge mosaica dei primi cinque libri (“Pentateuco”, letteralmente “i cinque astucci”: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio) di ciò che la dottrina avrebbe poi definito “Antico Testamento”. Yeshua bar Yosef, da buon ebreo di Palestina, si presenta come un’autorità in tali Scritture, e infatti i suoi discepoli lo chiamano “grande rabbi” (maestro). Dopo la Crocifissione, i discepoli continuarono a riverirne gli insegnamenti e anzi, in virtù della stretta comunanza con il rabbi, ascrissero a se stessi un’autorità pari a quella di Mosé. Con il passare dei decenni e con la diffusione del messaggio del Cristo al di fuori del ristretto ambito giudaico, il numero dei testi che pretendevano di essere stati composti dagli Apostoli aumentò esponenzialmente; si moltiplicarono anche i “Vangeli”: i Quattro neotestamentari, pur di autori anonimi, ricevettero la designazione che si conosce (due hanno nomi di Apostoli, Matteo e Giovanni, uno ha il nome di un “compagno di Apostolo”, Marco amico di Pietro, uno ha il nome di un “compagno di discepolo post-mortem”, Luca amico di ‘Paolo’), ma anche altri vantavano il titolo di appartenere ad Apostoli sia accertati (“Filippo”, “Pietro”, due diversi di “Didimo Tommaso”, uno perfino del reietto “Giuda”) che presunti (“Maria Maddalena”).
La letteratura popolare avrebbe trovato tra questi testi alternativi le sue pagine migliori, specialmente nel Medioevo; l’arte figurativa (affreschi, sculture e vetrate di cattedrali), l’agiografia e la novellistica avrebbero attinto largamente a questi racconti (basti pensare al Graal e a Maria Maddalena), imitandone gli atteggiamenti e replicandone i motivi, in una sorta di “Cristianesimo sotterraneo” (traboccante di speranze, bisogni e candida forza creativa) attratto dal filo conduttore che lega queste varie correnti “eretiche”: l’umanità di ‘Gesù’ con tutte le passioni più nobili dell’uomo — lo sdegno per la prepotenza, l’intolleranza e la cupidigia, la pietà per i poveri e per i sofferenti, la capacità di commuoversi, il coraggio di affrontare a viso aperto i potenti, i sopraffattori, “Farisei” e “mercanti nel Tempio” —. Nella molteplicità di interpretazioni cui la sua vicenda dà vita (Figlio di Dio, Salvatore, capro espiatorio, predicatore, esempio di virtù, profeta, combattente per la libertà...) sta il segreto del fascino immortale di Yeshua bar Yosef/‘Gesù’: ogni “grande uomo” della Storia conta per gli altri nella misura in cui gli altri riescono ad attribuirgli una personalità che corrisponda a ciò che essi si aspettano da lui.
Tutti questi “vangeli” ed “apocalissi” ed “epistole” sostengono di rappresentare i veri insegnamenti di ‘Gesù’ e tutti erano riveriti come Sacre Scritture da un gruppo ‘cristiano’ o dall’altro (nel ii Secolo, in Palestina come in Siria, in Asia Minore, in Egitto, in Grecia e a Roma, ogni comunità aveva il proprio Vangelo, e Giustino nella sua “Apologia” attinge indifferentemente da parecchi di essi senza porsi problemi di “canonicità”): fu naturale perciò che, ad un certo punto di questo inarrestabile proliferare del nuovo messaggio di successo, la gente cominciasse a chiedersi chi diceva le cose giuste e chi quelle sbagliate. Era più o meno lo stesso fenomeno odierno della falsificazione di un marchio famoso: quale borsa di “Gucci” è vera e quale è invece una patacca?
A guardar bene, “Matteo”, “Marco”, “Luca” e “Giovanni” battono tutti gli altri sul terreno dello stile. La loro prosa è governata da una sobria misura; l’espressività è casta, non si sovrappone alla “verità” per sopraffarla; realtà sociale del tempo e “realtà misterica” si intrecciano con naturalezza, offrendo una trasparenza che avvicina al mistero e al contempo mantiene da esso la distanza necessaria affinché sia rispettato. Novità ed intensità del messaggio non inficiano l’arcana semplicità della parola. Nelle pagine degli Apocrifi invece si sente il fiato grosso dell’approssimazione e della forzatura, l’impazienza del voler meravigliare, l’amore forsennato e accecante per il bisogno di credere: la loro schematicità denuncia l’assenza della lunga elaborazione che arricchì (per non dire manipolò) i Quattro; inoltre una parte di essi — i cosiddetti “Vangeli giudeo-cristiani” —, per l’interpretazione del messaggio in chiave di rivendicazione sociale, era adatta alle piccole realtà palestinesi e siriane ma non al mondo greco-romano, più smaliziato e più sensibile al paganesimo.
E tuttavia gli stessi Quattro soffrirono non poco: a quasi due secoli dalla Crocifissione, Marco e Matteo erano accettati un po’ ovunque, ma su Luca si facevano molti distinguo e addirittura Giovanni incontrò una considerevole opposizione. I dibattiti furono intensi e talvolta violenti: ‘Gesù’ è un essere divino “generato” da Dio (come appare in Matteo e Luca), o è “adottato” da Dio al momento del battesimo (Apocrifi “giudeo-cristiani” e Marco), oppure ne è una “emanazione” (Gnosticismo e Giovanni), o ancora una “apparenza” presa da Dio per rivelarsi agli uomini (Docetismo)? E poi Maria, madre di ‘Gesù’, può essere considerata anche “madre di Dio”?
Nei primi tre secoli del ‘Cristianesimo’ — che, lo ricordo, sono il limite d’indagine di questo saggio — c’è una costante che è impossibile passare sotto silenzio: quando si esamina la questione della “Vergine Maria”, ci si ritrova davanti l’archetipo largamente diffuso di una divinità femminile con un “figlio salvatore” il quale, morto tragicamente, rinasce portando alla risurrezione l’intero genere umano. Si può quasi affermare che questa immagine della Dea Madre e del Dio Figlio appartengano di diritto all’inconscio collettivo, alla struttura mentale dei popoli. La nostalgia della divinità femminile, dell’adorazione della maternità, è così profondamente radicata nell’animo umano da risultare impossibile estirparla del tutto.
Il messaggio ‘cristiano’, di origine ebraica, transitò attraverso l’Ellenismo di Saulo di Tarso prima di inserirsi nella matrice romana; ma a differenza allo spirito filosofico dei Greci, i Romani interpretavano storicamente anche fatti che nulla avevano a che spartire con la Storia, con quella “concretezza” che era alla base del loro successo economico, giuridico, militare e politico. A Roma i miti risultavano incomprensibili, se non venivano resi “reali” attraverso un’arbitraria collocazione temporale: Orazio Coclite (“Guercio”) fu la trasposizione storica del mito germanico di Odino, il dio guercio, e Muzio Scevola rappresentò la versione storica del mito indoeuropeo di Tyrr “il Monco”, dio che aveva perso un braccio per salvare i propri adoratori. Quando la Chiesa ‘cristiana’ divenne a Roma un’istituzione forte, con una gerarchia e dei dogmi, il messaggio ‘cristiano’ diventò necessariamente una “pagina di Storia”, e l’incarnazione del “protagonista”, in un modo o nell’altro, andava spiegata storicamente. Da ciò derivò l’importanza data alla madre di ‘Gesù’, la quale non poteva essere una donna qualsiasi dacché aveva accolto l’incarnazione di Dio.
Il concetto di Theotokos, “madre di Dio”, nacque in ambito gnostico (e fu proprio a Efeso, città che era al contempo il cuore delle dottrine gnostiche e l’epicentro degli antichi culti della Dea Madre, che ne venne più tardi proclamato il dogma). Gli Gnostici elevarono lo Spirito delle scritture a elemento femminile (in ebraico era già tale) e Maria — che dallo Spirito Santo era stata fecondata — divenne la Sophia, la conoscenza, in breve la divinità che presiedeva la Gnosi. Una siffatta “trinità” — Dio Padre, ‘Gesù’ Figlio e Maria Madre —, logica da un punto di vista naturale, si scontrò però con la ginofobia dilagante degli ortodossi: la “nuova Ishtar” venne retrocessa a “donna più pura” per evirare la nascente Trinità d’ogni elemento sessuale, e il suo posto fu preso proprio dallo Spirito Santo.
Il “culto della Vergine” conobbe uno sviluppo straordinario: si istituirono feste — l’Annunciazione, la Purificazione, la Dormizione, l’Assunzione, la Natività di Maria... — e si produsse letteratura intesa alla glorificazione mariana. Prendendo spunto dal primo capitolo di Luca e lavorando di fantasia, molti autori “apocrifi” svilupparono i temi dell’annunciazione, del fidanzamento fra Maria e Giuseppe, del viaggio a Bethlemme, della visita ad Elisabetta, su su fino alla nascita e infanzia, con intento sia apologetico che di esortazione alla castità, all’umiltà e alla carità, intento che la futura Chiesa vide tacitamente di buon occhio anche per le conferme offerte alla “senilità” di Giuseppe (“Protovangelo di Giacomo”) e all’assenza di veri fratelli di ‘Gesù’, oltre che per altre piccole “funzioni accessorie” (il nome dei tre Magi, l’invenzione del Presepe).
Uno dei gruppi concorrenti della “cristianità”, quello che nel frattempo si era installato nel cuore dell’Impero (l’urbe di Roma), riuscì a soverchiare tutti gli altri facendo più convertiti dei suoi oppositori; questa corrente vincente stabilì la struttura organizzativa della Chiesa ‘cristiana’, decise quali credo dovessero recitare i fedeli ‘cristiani’ e determinò quali Rolex fossero originali e quali patacche. Era il gruppo di Ireneo, Origene, Giustino, Tertulliano: ottenuto il sigillo della vittoria, tale gruppo divenne “ortodosso” (letteralmente “di retta fede”) e riscrisse i fatti storici sostenendo di aver sempre rappresentato l’opinione maggioritaria del ‘Cristianesimo’, l’unica ad affondare le proprie radici nell’eredità apostolica.
Questa preoccupazione dell’aver ragione era caratteristica solo del ‘Cristianesimo’ (ma sarebbe diventata poi ancor più forte nell’Islam): l’Impero di Roma era popolato di culti d’ogni tipo — familiari, statali, cittadini — e le genti adoravano innumerevoli dèi in molti modi; la cosa era ben lungi dall’essere sentita come un problema, anzi la molteplicità generava rispetto, e la pluralità tolleranza. In seno ad una stessa confessione si potevano adorare ad esempio Giove e Venere, e al contempo dèi minori delle coltivazioni, del parto o del focolare domestico. Nessuno, tranne gli Ebrei, pensava che, se era nel giusto a venerare i suoi dèi come doveva, allora gli altri avevano torto ad adorare i propri come dovevano. Inoltre nessuna di tali religioni (anche qui con l’eccezione dell’Ebraismo) imponeva di accettare dottrine precise riguardo ad una divinità: non c’erano dogmi stabiliti per proclamare la “vera natura di un dio”, e non c’erano “credenze giuste” (ortodosse) o “sbagliate” (eretiche), ciò che contava erano tutt’al più i riti ed i precetti sanciti dalle tradizioni. Poi vennero i ‘cristiani’, per i quali ‘Gesù’ era “l’unica fonte di salvezza”, e questa esclusività riposizionò verso l’errore tutte le altre confessioni.
Se non si fosse affermata la forma che uscì vincitrice, il ‘Cristianesimo’ non sarebbe diventato il fulcro dell’Impero Romano, e quindi non sarebbe mai divenuto il culto dominante del Medioevo; non ci sarebbero stati il Rinascimento né la Riforma, e sicuramente l’Occidente non sarebbe la “civiltà di successo” che è oggi. E forse è bene, che il gruppo vincitore sia stato quello ortodosso: se avesse vinto una “élite spirituale” come lo Gnosticismo, che tipo di programma sociale sarebbe stato proposto da chi non dava alcun valore al futuro della stessa società? Che risposte sarebbero state date di fronte a povertà, ingiustizia, malattia, se “la carne va fuggita” (anziché “tollerata”)?
Come tutte le religioni “scritturali”, il ‘Cristianesimo’ ha i suoi guardiani. Il che comporta un prezzo da pagare: se l’unica via che abbiamo per accedere alla fede è una tradizione che a sua volta ha bisogno di interpreti, lo scontro tra i vari guardiani è ineludibile.
La battaglia però non fu semplice, né breve.